A proposito di placchette.

Modello, matrice, originale, prototipo, copie, varianti e falsi.

di Alessandro Ubertazzi in “Racconti di un collezionista”, rubrica di “Antiqua” (rivista on line di divulgazione scientifica nel campo dell’antiquariato), Milano, 2 dicembre 2021.

Aspetti tecnologici delle fusioni antiche.

In questi ultimi tempi mi sono curiosamente pervenuti due stimolanti testi, rispettivamente degli amici Mike Riddick e Marco Ottolini: essi trattano la tecnica fusoria e le modalità operative di certi laboratori rinascimentali dedite alla produzione bronzistica (1) e le caratteristiche delle medaglie fuse di quello stesso periodo (2).

Entrambi quei contributi, certo originati da presupposti diversi, hanno peró acceso il mio interesse per gli aspetti tecnologici delle botteghe del Rinascimento in Europa oltreché, ovviamente, aver rintuzzato il piacere nel riflettere sulla indiscutibile bellezza di molte opere di quel tempo.

In effetti, Mike Riddick entra “a gamba tesa” sulle diffuse incertezze concernenti la paternità di molte composizioni plastiche diffuse nel 1500 in Europa, dimostrando come le molteplici botteghe di quel tempo non fondessero solamente (e, certamente, commercializzassero) opere di autori che si rivolgevano a loro per l’esecuzione di opere artistiche; Mike Riddick ritiene addirittura, infatti, che taluni cedessero ad altri operatori matrici e semilavorati originati nella loro cerchia. Questi, a loro volta, piú o meno astutamente, diffondevano sul mercato placchette, mortai, campane, campanelli, candelabri, calamai, lucerne, acquasantiere, bocche da fuoco e pomi di spada nelle forme piú apprezzate in quel momento.

Come è stato giustamente evidenziato da Francesco Rossi nella prefazione al catalogo delle placchette di Mario Scaglia (3), le fusioni rinascimentali piú diffuse possono essere oggi classificate secondo criteri tassonomici tendenti a evidenziarne le varianti dimensionali, formali e compositive rispetto all’esemplare ritenuto prototipico.

Tuttavia, il contributo di Mike Riddick va oltre queste logiche e ci induce a riflettere maggiormente sulla provenienza delle varianti oltreché sulla loro genealogia. Secondo me, un aiuto in tal senso, potrebbe derivare dall’identificazione della composizione delle leghe metalliche impiegate presso le singole botteghe: come è noto, ciascun laboratorio disponeva di sue ricette specifiche e perfino “segrete” adatte a ottenere le fusioni giuste per produrre i propri oggetti.

Sulle misteriose attività, quasi alchemiche, della metallurgia antica e dei fonditori, in passato fiorirono fuorvianti leggende secondo le quali, ad esempio, i produttori di campane aggiungevano argento al bronzo affinché i loro artefatti producessero un “suono piú argentino”; tuttavia, nell’antichitá, i bronzi adatti al getto di oggetti erano costituiti essenzialmente da rame di volta in volta consapevolmente mescolato a stagno ovvero a zinco o a entrambi i metalli se non addirittura ad altri ancora (come, ad esempio, il piombo, l’arsenico o l’antimonio) non necessariamente giá presenti nel materiale vergine proveniente dalle miniere o dai laboratori metallurgici.

I componenti delle leghe, infatti, erano dosati e aggiunti al rame per migliorare l’estetica del prodotto oppure per temperare la fusione e ottimizzarne la lavorazione; a tal proposito, si veda anche il testo di Stefan Jeckel sulle icone russe fuse (4).

A seconda della zona di produzione, oltre al rame, i bronzi potevano di volta in volta contenere solo stagno o solo zinco: questo secondo metallo (che rende i getti piú fluidi e perció piú facili da gestire) conferisce agli oggetti un colore piú giallastro di quelli contenenti solo stagno. Peraltro, lo zinco è stato per lunghi periodi assente della fonderie della penisola italiana in funzione dei rapporti politici che i vari Stati di cui era costellato il nostro Paese intrattenevano con i mercati stranieri che lo esportavano. L’eventuale presenza di zinco nelle fusioni rinascimentali italiane è semmai talvolta dovuta all’utilizzo di “rottame” proveniente da manufatti romani antichi che ne contenevano (come quelli realizzati in “oricalco”) a seconda della sua disponibilità presso le “colonie”.

Monete, medaglie e placchette.

Coloro che si sono cimentati nel precisare il significato del termine “placchetta” e quanto esso comprende, hanno talvolta cercato di fornire un loro contributo in tal senso: pertanto, io stesso, proveró qui a farlo, soprattutto con riferimento a quanto ho raccolto nella mia personale ricerca nel settore.

Innanzitutto, comincio con il dire che, purtroppo, il termine “placchetta” è piuttosto ambiguo se non addirittura equivoco. Per i bibliofili, il termine “placchetta” (dal francese plaquette) definisce infatti (e questo davvero non me lo spiego) un piccolo volume raro perché di scarsissima diffusione, un “lacerto” di libro, una sua residua porzione (5). Peraltro, almeno in italiano e per quanto riguarda il settore dei piccoli bronzi rinascimentali, esso deriva da quello di “placca”: in tal senso, esso intende designare una sorta di piastra generalmente di natura metallica ma piú piccola.

Nella citata prefazione alla pubblicazione concernente le placchette della collezione Scaglia, Francesco Rossi propone la seguente definizione: «bassorilievo in metallo realizzato per matrice a figurazione libera, non finalizzato, suscettibile di replicazione per calco, flessibile a qualsiasi utilizzazione decorativa, anche tramite varianti».

Personalmente, preferisco dire «bassorilievo di soggetto libero, realizzato prevalentemente in metallo mediante matrice, fruibile in quanto tale anche con varianti ovvero disponibile per completare esteticamente la realizzazione di oggetti».

A coloro che mi chiedono se esistono riconoscibili differenze fra la placchetta, la medaglia e, addirittura, la moneta, sono solito riferire che, nonostante l’eventuale consimile natura materica oltreché la presenza di una figurazione piú o meno magistrale o, quanto meno, artistica, il confine fra i tre diversi generi è piuttosto netto e preciso.

  • La moneta, è un oggetto quasi sempre metallico e, comunque, particolarmente seriale: il suo assetto compositivo è sostanzialmente finalizzato a documentare il valore di scambio che essa possiede e, semmai, a chiarirne il contesto d’uso. La moneta occidentale è spesso dotata di un fronte (detto famigliarmente “testa”) che riprende le sembianze dell’Autoritá che garantisce il titolo di credito e lo emette, mentre il retro (detto “croce”) quasi sempre riporta il suo “valore facciale” (G1.2a e G1.2b).

G1.2a                                            G1.2b

I primi titoli di scambio (analogamente ad alcune monete tutt’ora in uso presso certe civiltà tribali) evidenziavano nel metallo fuso (spesso un vero e proprio lingotto) il valore di ció che si poteva acquisire con essi; in tal senso, come noto, alcune di quelle monete di ambito italico riportavano l’immagine stilizzata di una pecora (in latino pecus) che ha dato luogo, addirittura, al termine “pecunia” cioè proprio… moneta.

  • La medaglia, piú frequentemente bifacciale, è un piccolo rilievo, quasi sempre in metallo, realizzato con l’intento di immortalare un essere umano e di eternarne l’effige nel tempo  (M1.2a e M1.2b) (M1.16a e M1.16b / M1.17a e M1.17b) (M1.47a e M1.47b).

M1.2a                                                         M1.2b

M1.16a e b                                     M1.17a e b

M1.47a                                                                  M1.47b

Oltre a rappresentare una persona o un’istituzione, le medaglie comprendono anche l’annuncio o il ricordo di eventi significativi. In altri termini, le medaglie, ancorché realizzate in modo particolarmente artistico, manifestano comunque sempre una intenzione celebrativa: esse sono cosí dei “monumenti da tasca”, il memento di un personaggio o di un avvenimento.

Generalmente, le sembianze del soggetto o l’effigie dell’Istituzione riportata sul fronte sono corredate da una legenda atta a specificarne i dati salienti; il retro riporta una scena che attiene alla vita o alle “imprese” di chi è rappresentato sulla faccia (P3.79a e P3.79b) anteriore.

P3.79a                                                               P3.79b

Di molte medaglie antiche esistono versioni uniface costituite dal solo fronte mentre, talvolta, si incontrano versioni uniface che riportano il solo retro.

Come giustamente ricordato dall’amico Ottolini, quasi sempre la medaglia rinascimentale è ottenuta grazie alla fusione in terra di un rilievo in cera (una fusione “a cera persa”).

La forma prevalentemente circolare rivela quanto le medaglie rinascimentali e la gran parte della medaglistica di tutti i tempi siano tributarie della monetazione romana della quale riprendono l’intenzione di divulgare e far conoscere l’aspetto degli Imperatori (si pensi, in particolare alla realizzazione dei diversi “contorniati”); la medaglia puó comunque avere le piú varie configurazioni ed essere realizzata nei piú diversi materiali.

  • Come giá visto, la placchetta è invece un rilievo prodotto serialmente (la gran parte delle volte monofacciale) caratterizzato da una composizione figurata (analogamente a medaglie e placchette) che, peró, non celebra nulla né mostra un valore di scambio.

A partire dal XV secolo, i metalli normalmente usati per ottenere placchette direttamente fruibili in quanto tali ovvero per ornare, con esse, oggetti d’uso, sono il bronzo (lega di rame prevalentemente additivato con stagno) e l’ottone (lega di rame prevalentemente additivato con zinco) entrambi talvolta dorati e/o argentati e molto spesso patinati all’origine dal produttore, l’argento, il piombo, lo zinco o il peltro.

Esistono, comunque, anche placchette in zolfo o in cera (P1.238) (piú o meno additivati con pigmenti colorati); secondo me, il termine placchetta comprende anche i rilievi realizzati in altri materiali “plastici” (come il corno, la tartaruga, le sostanze ceramiche) o “deformabili” o “imprimibili” (come il cuoio).

P1.238a                                                          P1.238b

Paci, appliques e altri tipi di rilievi.

Desidero comunque aggiungere che placchette, medaglie e monete sono generalmente opera di artisti specialistici, spesso di primaria grandezza: pertanto, l’aspetto di tali oggetti puó rivelare realmente invenzioni affascinanti quanto le opere scultoree propriamente dette: tuttavia, in qualche raro caso, autori di placchette si sono cimentati nella realizzazione di medaglie, medaglisti hanno realizzato monete e orafi hanno realizzato placchette; ovviamente tutti, a loro modo, hanno impresso nelle loro opere la temperie culturale del momento storico che essi vivevano e, addirittura, hanno contribuito direttamente a formarlo.

Soprattutto nella versione magistrale del prototipo o di esemplari di opere destinate a committenti importanti, gli “artisti” ovvero gli “artigiani artisti” (come certi orafi magistrali o provetti medaglisti) si distinguono esplicitamente e facilmente dai semplici artigiani bronzisti e dagli operai delle varie fonderie che li producevano.

Colgo questa occasione per riferire che la mia collezione annovera, comunque, molteplici tipi di rilievi che, come le placchette propriamente dette, mostrano analogo intento funzionale (decorativo libero) come, ad esempio, le anconette votive per il “bacio di pace” (P1.9a, P1.9b e P1.9c), le appliques (P2.2a e P2.2b / P2.3a e P2.3b) per ornare croci astili e tabernacoli, i fregi atti a ornare stipi e mobili, ecc.

P1.9a                                                                          P1.9b

P1.9c, manico

P2.2a                                               P2.2b

P2.3a                                                              P2.3b

Devo altresí ammettere che, assieme alle placchette sopra definite, ho raccolto e accostato a quelle, anche altri rilievi affini come, ad esempio, piccoli bronzi ornamentali realizzati serialmente prima del periodo ufficialmente riconosciuto come caratteristico di questo genere artistico (a partire, cioè, dalla metá del 1400 e che definisco “placchette ante litteram”) (P1.4a e P1.4b / P1.5a e P1.5b) ovvero rilievi artistici realizzati anche in tempi recenti e perfino contemporanei, anche con tecniche fusorie o riproduttive moderne (stampati da lastre, coniati, realizzati in materiale fittile anche tecnologico).

P1.4a                                               P1.4b

P1.5a                                                    P1.5b

Pur apprezzando e perfino ammirando l’estrema qualitá o la folgorante intuizione di taluni artisti, personalmente ho raccolto anche opere ritenute “minori” o relativamente sommarie sotto il profilo estetico ma spesso testimonianze particolarmente suggestive della loro epoca, preziosi documenti antropologico-culturali del contesto che le hanno espresse. E cosí, accanto ad espressioni maggiori e d’autore, ho voluto raccogliere anche varianti di bottega e perfino opere palesemente contraffattequasi per imparare a distinguerle da quelle autentiche: sono solito dire che non è facile apprezzare pienamente la luce senza poterla contrapporre all’ombra dalla quale, appunto, essa trae risalto.

Opere piú volte derivate dai loro modelli superiori non solo consentono di stabilire i vari livelli di approssimazione alla loro perfezione tendenziale ma consentono altresí di misurare la qualitá e l’importanza della fortuna che certe opere hanno riscosso nel tempo (P1.20a e P1.20b / P1.21a e P1.21b /P1.76a e P1.76b / P1.75a e P1.75b / P1.180a e P1.180b / P1.161a e P1.161b).

P1.20a                                                                P1.20b

P1.21a                                                                P1.21b

P1.76a e b                                                               P1.75a e b

P1.180a e b                                                            P1.161a e b

L’importanza del modello.

Nella lingua italiana, il termine “modello” designa un oggetto che costituisce il riferimento per la realizzazione di altri esemplari il piú possibili uguali o simili a quello.

Nell’ambito della produzione di oggetti da parte di orafi, scultori, medaglisti e bronzisti, il sostantivo “modello” è il termine generico che designa il manufatto costituente il riferimento definitivo per l’opera: con le più diverse tecniche e nei più diversi materiali, questa era realizzata dal suo stesso autore o da un artigiano da questi designati allo scopo.

Molto spesso, nella realizzazione del prototipo nelle botteghe, i medaglisti usavano direttamente il modello: purtroppo questo, con la tecnica della cera persa, veniva distrutto.

In altri casi, il modello era realizzato in un materiale rigido (calcare, pietra litografica, materiale ceramico, legno duro) che consentiva di ottenere una o più impronte successive entro la terra refrattaria: queste impronte costituivano le “matrici” per la fusione del/degli oggetto/i desiderati (M4.8a).

M4.8a

Nel caso delle medaglie e delle placchette rinascimentali, il modello poteva essere realizzato in cera: con la fusione a “cera persa” se ne otteneva un prototipo (l’originale) che, a sua volta, consentiva di realizzarne impronte nella terra refrattaria, cioè gli stampi per le successive copie.

Nel caso della medaglistica rinascimentale spesso si utilizzava il prototipo (fuso e quindi rigido) per realizzare gli originali: talvolta, alcuni modelli rigidi e non deperibili si sono conservati.

Il termine modello puó, comunque, significare anche quel bozzetto molto dettagliato (spesso realizzato da artista maggiore) che occorreva all’artigiano artista per ispirarsi e per realizzare il modello-prototipo da cui procedere con la fusione in serie di oggetti d’arte (placchette, mortai, campanelle, calamai, ecc.).

Nel suo volume sulle placchette rinascimentali non italiane “Deutsche, Niederländische und Französische Renaissanceplaketten 1500-1600; Modelle für Reliefs an Kult-, Prunk- und Gebrauchsgegenständen, la Weber presenta alcune placchette confrontate con i modelli che le hanno generate: il loro codice è lo stesso delle placchette precedute da una M.

A proposito di modello, per evidenziare che l’idea iniziale di un artista poteva essere ritoccata nei successivi passaggi realizzati compresi quelli fusori, desidero mostrare un rilievo (probabilmente di zinco o peltro) che sembra ricavato da una cera ma, soprattutto, sembra costituire l’idea originaria per un vasto gruppo di placchette che, forse, sono state adattate con evidente forzatura compositiva, entro un tondo adatto a ornare, ad esempio, il pomolo di una spada. Sotto il profilo puramente compositivo ritengo, infatti, che il modello originario della reiterata placchetta tonda (conosciuta in diverse varianti) doveva apparire piú equilibrato e armonico di quelle che registrano un’evidente forzatura in basso, sul lato dx (P6.1a, P6.1b e P6.1c): cfr., ad esempio, la placchetta tonda fig. 164 (n. 168) della collezione Samule Kress.

P61.a                                                                         P6.1b

Sempre a proposito di modifiche al modello, ovvero di varianti, apportate alla configu-razione iniziale di una placchetta, riporto questi quattro esemplari che differiscono fra loro non tanto per sottrazione o aggiunta di particolari o per modifica di dettagli bensí per varianti apportate alla forma esterna (P1.67a e b – P1.70a e b).

Inoltre, la placchetta che rappresenta il rapimento di Romolo e Remo a Rea Silvia, vuole esemplificare la fusione realizzata entro uno stampo ottenuto da un originale (probabilmente perduto e a sua volta ricavato dal modello scolpito da Loy Hering), in questo caso scolpito in pietra litografica.

Come ha giustamente ricordato la Weber nella sua citata opera concernente le placchette rinascimentali non italiane, i diversi passaggi dal modello alle copie finali hanno sottratto progressivamente definizione e dimensione al modello, cioé all’opera originale dell’Autore (P1.333a, P1.333b e P1.333c).

P1.333a                                                           P1.333b

Calo dimensionale rispetto al modello.

Come giá detto, in funzione del fatto che, raffreddandosi, i metalli fusi si restringono, la tiratura di placchette realizzate usando per la matrice esemplari di tirature precedenti, comporta che, in ogni passaggio, la copia del rilievo si riduca non meno dell’1,5% rispetto al modello di partenza.

Sempre con riferimento a quanto detto all’inizio, oltre ad essere classificate secondo il loro livello di “stanchezza” (se cioè le loro caratteristiche sono piú o meno nitide) le placchette possono essere classificate anche come derivate dall’originale o derivate dalla prima derivazione dell’originale e cosí via.

Esse possono poi essere classificate in funzione delle varianti che vengono stabilite dall’artista o da chi per lui, nel tempo.

A questo proposito, puó essere utile commentare le tre placchette che raffigurano la

“Adorazione dei pastori”, ascritte ad area emiliana e, forse, opera di Gianfrancesco Bonzagna (P1.155a e b – P1.157a e b).

P1.155a                                                            P1.155b

P1.156a                                                         P1.156b

P1.157a                                                         P1.157b

Consultando le schede allegate, appare subito evidente che la prima placchetta presenta dimensioni confrontabili con gli esemplari ritenuti originali, la seconda registra le dimensioni caratteristiche della prima copia dall’originale e la terza registra una dimensione che corrisponde alla “copia della copia” dell’originale.

Oltre a ció, confrontando i retri delle placchette, risulta evidente che le tecniche fusorie impiegate sono differenti. La prima sembra fusa in terra partendo dal prototipo originale (sotto al capitello diroccato, che si trova in basso al centro, essa porta la data 1561); la seconda sembra fusa usando come matrice un esemplare relativamente stanco grazie anche alla presenza di una controforma; la terza appare fusa partendo da un originale fortemente ritoccato e arricchito da particolari che, inizialmente, non erano previsti (essa porta, infatti, la data 1590).

In realtà, la prima placchetta, nella quale i volti e le membra delle persone sono argentate mentre il resto è dorato, era evidentemente destinata a un pubblico raffinato.

La seconda sembra una realizzazione piú dozzinale e semplificata, ricavata da una copia della serie corrispondente alla precedente; i tratti di persone e cose, appaiono molto sfocati e la patina artificiale sembra voler far credere che si tratti di una tiratura antica, distraendo peraltro dalla sommaria qualità della fusione.

La terza, copia di copia, arricchita di molti dettagli inizialmente assenti, denuncia una realizzazione piuttosto tardiva come evidenziato anche dalla data indicata sotto al capitello diroccato, posto in basso, al centro della composizione.

Se si prescinde dal fatto che la data riportata sulla base del capitello differisce nelle varie edizioni delle placchette, il secondo esemplare non reca scritte sul fronte dell’arco mentre il terzo si diversifica dalla prima riportando una frase del Vangelo al posto della presunta firma dell’autore: fra l’altro, la scarsa dimestichezza con il latino ha indotto l’artigiano che ha realizzato lo stampo a scrivere GORIA al posto di GLORIA!

Per concludere, ritengo che l’esame di una placchetta non possa prescindere da un’attenta valutazione della sua definizione (sul fronte) e dalle tecniche fusorie (sul retro). In tal senso, le tre fusioni presentate potrebbero essere state realizzate in tre differenti botteghe proprio sulla base delle loro diverse tecniche di produzione: questo fatto rivela, peraltro, il forte gradimento manifestato dal mercato per questa composizione ed evidenzia la longeva persistenza del modello al punto di averlo dovuto arricchire di dettagli per adattarlo alle mutate esigenze culturali del tempo.

Alla luce di quanto detto circa la riduzione dimensionale delle placchette in funzione dei successivi passaggi, un altro confronto interessante riguarda le medaglie dedicate ad Attila: riporto qui di seguito quello che a me risulta essere l’originale (secondo me il piú grande conosciuto) e che potrebbe essere il capostipite di tutte le altre consimili (P4.13a e P4.13b).

P4.13a                                                           P4.13b

Confrontando le misure riportate sulle schede ma anche osservandole “a occhio”, le medaglie piú grandi finora pubblicate non sono meno di due volte derivate dall’originale; anzi, gli esemplari piú stanchi sono progressivamente sempre piú piccoli (P4.14a e b – P4.21a e b).

A proposito di repliche, copie, riproduzioni e rifacimenti.

Come giá detto, l’interesse suscitato a partire da alcune composizioni magistrali in bronzo ha indotto i fonditori ad effettuarne repliche, copie, riproduzioni e rifacimenti (P1.89a e P1.89b / P1.91a, P1.91b e P1.91c).

P1.89 a e b

   P1.91a                                                              P1.91b

P1.91c

Ad esempio, il bassorilievo realizzato dal Moderno e conservato a Vienna presso il Kunsthistorisches Museum, fin dall’inizio ha suscitato nei collezionisti un forte desiderio di possederne quantomeno una copia; questa ipotesi spiega, infatti, il grande numero di riproduzioni realizzate nei secoli a imitazione di quel rilievo.

Secondo gli studiosi, le versioni di questa “Sacra Conversazione” oggi esistenti sono praticamente tutte dei “rifacimenti” piú o meno raffinati: per la verità, tali versioni sono spesso anche assai rudimentali, molte sono addirittura grossolanamente modificate per nascondere le nudità che l’originale mostrava, travisandone, cosí, il “misterioso” significato.

Con riferimento anche alla corrispondenza intrattenuta con Mike Riddick, sono personalmente convinto che l’esemplare presente nella mia collezione differisca da tutti quelli conosciuti perché realizzato in bronzo (dorato), fuso a cera persa e quindi non prodotto elettricamente; devo anche aggiungere che la matrice dalla quale è stata ricavata la cera utilizzata per questa fusione a cera persa non puó essere stata realizzata galvanicamente (cioè da un preciso calco elettrolitico, come ipotizza Mike Riddick) perché, in tal senso, la fusione manifesterebbe, comunque, la riduzione dimensionale che compete a tutti gli esemplari ricavati da un originale.

Personalmente ritengo che lo splendido oggetto in questione sia stato prodotto all’interno della bottega che ha realizzato il noto capolavoro, partendo dai modelli ivi presenti: le sue misure, rilevate anche da punto a punto, non rivelano, infatti, riduzioni sensibili rispetto all’esemplare magistrale (P1.108a e P1.108b).

P1.108a                                                               P1.108b

Glossario minimo.

Oltre a “medaglia”, “moneta” e “placchetta” (di cui ho dato giá definizioni), in questo sintetico testo, riporto qui di seguito la spiegazione di altri termini che ho usato perché essi possono essere utili ai neofiti di questo settore.

Amalgama.

Amalgama è il termine che designa la lega pastosa di mercurio unito a freddo con altro metallo (spesso nobile) che il metallo liquido incorpora per poi poterlo depositare su un altro metallo da nobilitare.

Soprattutto in passato, l’amalgama d’oro e d’argento o di entrambi serviva per la rifinitura (doratura, argentatura) di superfici metalliche poco performanti sotto il profilo tecnico ed estetico. Simili lavorazioni oggi non sono più consentite perché molto nocive alla salute degli artigiani.

In quel caso, comunque, la superficie degli oggetti da dorare o argentare veniva ricoperta di amalgama: sottoposto a una fonte di calore, il mercurio contenuto nell’amalgama “sublima” (cioè evapora e viene raccolto altrove), lasciando sul metallo da trattare una superficie nobile che, nel frattempo, si è ben legata al metallo sottostante.

Anconetta votiva.

(cfr. pace).

Appiccagnolo.

Si chiama “appiccagnolo” quel dispositivo adatto ad appendere o sospendere un oggetto (ad esempio medaglie, monete e placchette) a qualche appoggio: sovente si tratta di un anello o di un gancio saldati all’oggetto ovvero di un foro ricavato a priori nello stesso.

Argentatura a mercurio.

(cfr. amalgama).

Bronzo.

Dopo il rame, il “bronzo” è il metallo tecnico più antico.

In realtà, la metallurgia del minerale di rame consentiva la produzione di oggetti d’uso relativamente performanti già a partire dal IX secolo; tuttavia, è solo a partire dal terzo millennio a.C. che gli antichi scoprirono l’opportunità di unire a quel minerale anche porzioni di stagno ottenendo una lega decisamente più lavorabile. Gli antichi, soprattutto i romani, scoprirono l’opportunità di aggiungere anche minime quantità di altri metalli (soprattutto il piombo) ottenendo, cosí, leghe particolarmente utili: incorporando arsenico sul filo delle lame di bronzo, ad esempio, si ottenevano taglienti più efficienti.

Occorre ricordare che tutti gli ambienti umani che si sono affrancati dal paleolitico, nel periodo neolitico conobbero prima la civiltà del rame e poi quella del bronzo.

Per i romani, uccidere un nemico in battaglia, di diceva «ex aere» cioè col bronzo, il che significava ucciderlo con il gladio che, all’inizio, era appunto realizzato con quel metallo.

L’espressione bronzo comprende una vasta specie di leghe molto tecniche che con tengono perfino alluminio, silicio, nichel, berillio, ecc. Oggi i bronzi per la statuaria non possono più contenere piombo (che, nelle dovute quantitá, rendeva il getto piú scorrevole) perché nocivo.

Bulino.

A differenza dei ceselli, i “bulini” sono strumenti dotati di punte taglienti che consentono di realizzare rilievi per asportazione di materia incidendo e scavando progressivamente  il materiale da configurare.

Cera.

La “cera” è la sostanza secreta dalle api con la quale esse realizzano i favi del loro alveare costituiti dalle celle esagonali; in esse, ad esempio, conservano il miele. Esistono anche altri cere naturali (come quella vegetale ricavata dalla carnauba o quella minerale che si chiama paraffina). Il termine cera oggi designa genericamente anche altre miscele di alcoli grassi ed esteri che hanno caratteristiche simili alla cera d’api.

La cera d’api e altre cere più o meno artificiali, sono tutto’ora usate dagli artisti per plasmare bozzetti o per realizzare vere e proprie sculture; sono altresì usate dai ceroplasti per modellare copie particolarmente verosimili di cose o persone (si vedano, ad esempio, certe sculture di Medardo Rosso, i modelli anatomici di Gaetano Giulio Zumbo o i musei delle cere).

Cera persa.

La fusione a “cera persa” è un procedimento risalente addirittura al 3500 a.C. usato dagli scultori per versare metallo fuso entro cavità di materiale refrattario, ottenute da modelli in cera. Trattati ad alta temperatura, i materiali refrattari si solidificano formando uno stampo (matrice) e la cera si fonde: cosí, essa puó essere eliminata (persa).

L’impronta cava formatasi entro la matrice, riempita di metallo fuso, restituisce l’oggetto voluto che corrisponde alle forme del modello in cera.

Questa tecnica è stata usata nella realizzazione di oggetti pieni (come ad esempio le medaglie fuse) ovvero, con procedimento più complessi, anche nella realizzazione di statue cave.

Cesello.

Il termine “cesello“ designa una famiglia di strumenti simili allo scalpello caratterizzati da varie “punte” non taglienti che consentono, agli scultori e agli artigiani (orafi, argentieri e calderai), di “sbalzare” oggetti percuotendo e deformando lastre di metallo (d’argento, rame, ottone, piombo o peltro) su un supporto cedevole come, ad esempio, un cuscino di “bitume”.

Esse consentono, altresì, di ritoccare medaglie, placchette e sculture ad esempio per correggere eventuali difetti di fusione.

Conio.

(cfr. stampo).

Contorniato.

Nell’ambito numismatico e medaglistico, il termine “contorniato” (letteralmente immagine circoscritta da un contorno) designa principalmente le immagini tratte spesso dalle monete romane che, a partire dal IV secolo d.C., sono state riprodotte (soprattutto fuse) aumentandone la dimensione e conferendo loro quasi l’aspetto di medaglioni.

Molte sono le interpretazioni proposte da altrettanti di studiosi e collezionisti sulle finalità e sul significato di tali oggetti: tuttavia, la gran parte di esse non convincono.

Nella monetazione romana ufficiale, l’immagine degli imperatori aveva, infatti, il duplice compito di garantirne la legittimità e il corso (“essi ci mettono appunto la faccia”): tali oggetti avevano, cosí, proprio il compito non marginale di diffondere le effigi del massimo responsabile del sistema politico del momento, quasi fossero piccoli ritratti, importanti almeno quanto la statuaria ufficiale che veniva inviata nelle sedi amministrative periferiche.

Personalmente ritengo che, almeno i contorniati romani che riportavano l’effigie di qualche imperatore, avessero così quasi il ruolo di medaglie (G1.5a e G1.5b).

G1.5a                                                    G1.5b

Come è noto, Papa Paolo II Barbo, uno dei pionieri del collezionismo numismatico e medaglistico colto, ha fatto fondere molteplici sue medaglie in forma contorniata proprio perché anch’egli convinto che queste fossero, come quelle, suoi “mini monumenti” a futura memoria (M3.3.15a e M3.3.15b / M3.3.16.1a e M3.3.16.1b).

M3.3.15a                                                      M3.3.15b

M3.3.16.1a                                                   M3.3.16.1b

Copia.

Nel caso di oggetti d’arte, l’espressione “copia“ indica un’opera che assomiglia (o intende assomigliare) in tutto e per tutto a un elemento originale. Copie più o meno esatte di medaglie, monete e placchette particolarmente apprezzate sono sempre state effettuate in passato.

Doratura a mercurio.

(cfr amalgama).

Falso.

Il termine “falso” è un aggettivo sostantivato che si riferisce, in generale, a qualsiasi oggetto realizzato furbescamente in modo simile a un altro caratterizzato da legittima autenticitá, con l’obiettivo di ingannare o compiacere coloro che vorrebbero possederlo.

A parte rarissime opere di falsificatori particolarmente abili, i falsi di oggetti antichi si caratterizzano per la relativa rozzezza e per la sommarietà dei tratti che gli ingenui credono patina del tempo, frutto delle vicissitudini trascorse o consumo per l’uso (P1.101a e P1.101b / P1.102a e P1.102b / / P1.103a e P1.103b).

P1.102a e P1.102b                P1.101a e P1.101b                  P1.103a e P1.103b

Fusione coeva.

Si tratta di un oggetto dotato delle identiche caratteristiche formali e dimensionali dell’originale, verosimilmente realizzato dall’Artista stesso o dagli artigiani da lui diretti in tempi immediatamente successivi alle prime fusioni.

Fusioni antiche e tarde.

Si tratta di oggetti analoghi a quelli coevi ma evidentemente realizzati in tempi successivi o molto successivi alla prima tiratura anche se comunque antichi.

Fusione stanca.

Si è soliti dire che una fusione è “stanca“ quando l’oggetto presenta un’evidente riduzione della definizione dei suoi tratti: sulle medaglie, ad esempio, un sintomo molto significativo di questa condizione è costituito dalla leggibilità progressivamente piú scarsa nelle copie che si succedono all’interno di una tiratura.

Galvano.

Nella linguaggio corrente degli esperti di medaglie e di placchette, il termine “galvano” è la versione familiare di “galvanoplastica” e di “galvanostegía”: esso designa quelle riproduzioni molto precise in metallo di oggetti d’arte particolarmente interessanti o ambíti. Dalla metá dell’800, tali riproduzioni si ottengono mediante tecniche elettrolitiche. Un velo sottilissimo di un buon conduttore viene applicato alla superficie del calco di un oggetto da riprodurre; questo viene collegato al catodo e immerso in una soluzione salina del metallo desiderato (di solito rame o argento); con il passaggio della corrente elettrica, il metallo puro posto all’anodo passa al catodo attraverso la soluzione; il metallo si deposita cosí sul calco riproducendone perfettamente le forme (che corrispondono alla superficie dell’oggetto voluto) (P4.24a e P4.24.b).

P4.24a                                                                 P4.24.b

Impronta.

(cfr stampo).

Lega.

In metallurgia, il termine “lega” designa una sostanza, la gran parte delle volte metallica, costituita dalla intima e virtuosa unione di vari elementi volti a formarne un’altra più utile di quella di partenza.

La gran parte delle leghe metalliche è ottenuta per fusione a caldo, grazie al consapevole dosaggio dei suoi costituenti. Fanno eccezione le leghe di mercurio con metalli nobili che si ottengono a temperatura ambiente.

Matrice.

(cfr stampo).

Multiplo.

Con il termine “multiplo” si intende designare quelle opere d’arte ripetute in modo identico (fusione in conchiglia, grafiche di vario genere come xilografie e calcografie, ecc.): normalmente queste opere recano l’indicazione della loro tiratura (cioè del quantitativo di opere della serie) e del numero d’ordine secondo cui l’esemplare in questione è stato prodotto, salvo altre diciture che identificano ulteriori copie rispetto alla serie come, ad esempio, “prova d’autore”.

Originale.

Nel caso delle opere scultoree realizzate in metallo fuso a cera persa da una matrice comune, una consuetudine universalmente accettata consente di ritenere che un “originale” possa essere anche realizzato in più esemplari, fino a un massimo di undici. In realtà, nel processo produttivo di opere realizzate a cera persa da una stessa matrice (oggi si usa una “gomma”, cioé uno stampo elastico in silicone), il fatto stesso che, a un certo punto, l’artista debba “rinfrescare le cere” implica, inevitabilmente, che i diversi esemplari fusi differiscano quantomeno per le tracce lasciate sulla cera con questi ritocchi; molto spesso, poi, l’artista approfitta di questa occasione per introdurre, nella cera base, delle varianti più o meno importanti che, a maggior ragione, rendono ogni pezzo oggettivamente diverso dagli altri.

Oricalco.

Il termine “oricalco” indica una lega del rame con lo zinco (quest’ultimo presente attorno al 10% del metallo principale): la sua origine leggendaria risale alla Grecia antica ma, a partire dalla traduzione del termine greco ορείχαλκοs (rame della montanga) in latino (auricalcum) la lega viene identificata come rame dorato. Si tratta di un metallo che, prima di ossidarsi, risplende come l’oro (aurum): in realtá, praticamente, l’oricalco è un tipo di ottone.

Pace.

Nella terminologia concernente l’oggettistica ecclesiastica, il termine “pace“ designa quello strumento destinato al rito del “bacio di pace“ presente nella liturgia cristiana.

In latino chiamata “osculum pacis“ o “tabella pacis”, la pace è un altarolo, una anconetta votiva (spesso fusa come le placchette) che reca sul fronte un’immagine sacra mentre sul retro è dotata di un “manico“ o “maniglia“ atto a consentirne l’appoggio sull’altare oltre che a porgerlo comodamente ai fedeli affinché la bacino.

Dal XIII secolo, il bacio a questa piccola icona sostituisce quello che, sulla scorta della Bibbia, veniva scambiato fra i primi cristiani.

Molte placchette di soggetto sacro, opportunamente dotate di manico, sono state “montate a pace” dal XVI secolo fino al XX secolo.

Peltro.

Il “peltro” è una famiglia di leghe composte principalmente di stagno con l’aggiunta di piombo (in passato fino al 15%, ora peró proibito perché tossico), di rame, di bismuto e di antimonio.

Grazie alla sua facile lavorabilità e all’evidente malleabilità, il peltro è stato usato soprattutto in passato per realizzare oggetti di vario tipo ma anche per fondere o coniare medaglie e placchette.

Piombo.

Il “piombo” (Pb) è l’82º degli elementi chimici che costituiscono l’universo.

Questo metallo pesante è presente in molteplici minerali; oltre al basso punto di fusione che ne permette una facile lavorabilità, esso è stato usato in molte leghe per conferire loro una malleabilità migliore di quella caratteristica del metallo di partenza.

Prototipo.

Letteralmente, il termine “prototipi” significa “il primo tipo”, cioè il primo oggetto capostipite di una serie di esemplari del tutto simili; di volta in volta ritoccati, questi potevano essere piú o meno modificati o adattati al’uso che occorreva.

Rame.

Il “rame” (Cu) è il 29º degli elementi chimici che costituiscono l’universo.

Si tratta di una sostanza la cui metallurgia risale al’8900 a.C.; in realtà, se si prescinde dal piombo e da altri metalli facilmente fusibili ma teneri (che vennero usati ad esempio per realizzare statuette e piccoli idoli), il rame consentì agli esseri umani di realizzare oggetti d’uso e strumenti assai piú leggeri e performanti di quelli in pietra o ceramica.

Replica.

A partire dalla metà del XV secolo, prelati cólti, letterati raffinati e borghesi illuminati cominciarono ad apprezzare e collezionare, assieme ad eleganti e maneggevoli testimonianze del passato (come cammei e incisioni su pietre dure) piccole opere di autori artisticamente conclamati, economicamente più accessibili delle opere maggiori che ornavano le magioni dei principi e dei regnanti (come statue, dipinti e affreschi).

Quasi subito si pose quindi al problema di ottenere repliche e copie di quelle ambíte espressioni artistiche. In realtá, più o meno consapevolmente, i collezionisti contribuirono ad affermare la logica del multiplo d’arte: prima con le medaglie (si pensi, ad esempio, al cardinale Pietro Barbo divenuto poi Papa Paolo II) e poi con le incisioni (si vedano le xilografie del Mantegna o le incisioni in rame di ambito Tizianaesco).

Rottame.

Le fonderie di tutti i tempi hanno sempre usato mescolare frammenti di metallo (“rottame”), derivanti dalla demolizione di oggetti, a quello vergine proveniente dalle miniere:  è infatti risaputo che l’utilizzo di materia giá lavorata consente di economizzare energie.

Possiamo ricordare che Bernini ricevette dalla famiglia Barberini (e, in particolare, da papa Urbano VIII Barberini), l’autorizzazione a “cannibalizzare” e fondere i bronzi staccati dalle architetture del Pantheon per realizzare le maestose colonne tortili dell’altare maggiore di San Pietro: una mordace “pasquinata”, rivelatasi scritta da monsignor Carlo Castelli, espresse il perentorio giudizio «Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini» (quel che non fecero i barbari lo fecero i Barberini) che censurava apertamente la distruzione di capolavori romani anche se ciò contribuì alla realizzazione di un altro straordinario capolavoro.

Stagno.

Lo “stagno” (Sn) è il 50º degli elementi chimici dell’universo.

Questo metallo, oltre al punto di fusione relativamente basso, è noto fin dall’antichità perché, legato al rame in quantità compresa tra il 10 e il 20% consente la progettazione e la realizzazione di bronzi con caratteristiche specifiche, in funzione degli usi previsti.

Grazie alla resistenza dell’ossido che si forma naturalmente sulla sua superficie, lo stagno è da sempre utilizzato per proteggere altri metalli più vulnerabili: si pensi, ad esempio, alla “stagnatura” dei recipienti da cucina in rame destinati a contenere e a trattare il cibo; si pensi, altresí, alla “stagnola”, costituita da sottilissimi fogli di stagno, eventualmente accoppiati a fogli di carta (carta stagnola), un tempo usati per avvolgere prodotti deperibili.

Stampo.

“Stampo” è il nome generico di quel dispositivo che, similmente al conio e alla matrice, ha ricevuto una forma, scavata (cioè in “negativo”) oppure in rilievo ed è finalizzato a riprodurla su un altro materiale (P6.2a / P1.205a / P1.206a).

                 P1.205a e P1.206a

In generale, lo “stampo”, piú o meno dotato di “controforma” (cioè una sorta di rozzo negativo dell’oggetto voluto), imprime per pressione la forma su un altro materiale a lui sottoposto.

Per “matrice” si intende quel dispositivo finalizzato a riprodurre piú volte una forma voluta: nel settore delle medaglie e delle placchette, la matrice coincide con il dispositivo atto a produrre altri esemplari di un prototipo.

Il “conio” è un dispositivo dotato quasi sempre di due impronte negative. Una è incisa e scavata su un blocchetto di acciaio e fissata a un ceppo e l’altra è mobile (punzone): fra di esse viene percosso un pezzo di metallo che, cosí, rimane impresso su entrambe le facce. Questo dispositivo serve per “coniare”, cioè per riprodurre serialmente, le monete e le medaglie non fuse.

Puó essere curioso ricordare che entrambi i termini “matrice” e “conio” sono esplicitamente riferiti alla donna in quanto madre (matrix) o all’apparato riproduttivo femminile (cunnus, cioè  vulva).

Tiratura.

La “tiratura“ è la espressione che indica la quantità dei pezzi prodotti in serie: nel caso di multipli d’arte, siano essi su carta o realizzati nei più diversi materiali, oggi un numero progressivo viene assegnato a ciascun pezzo e questo è normalmente accompagnato dal numero che indica, appunto, la tiratura, cioè la quantitá di elementi dello stesso tipo prodotti.

Varianti.

Con riferimento all’attività delle botteghe di fonditori di medaglie e specialmente di placchette del passato, il concetto di variante indica gli esemplari che hanno subíto modifiche rispetto al prototipo originario.

Nel caso di medaglie, si tratta, ad esempio, della diversa rappresentazione posta sul retro o di modifiche aggiunte all’immagine sul fronte; nel caso di placchette, si tratta di modifiche portate alla forma del contorno, di dettagli aggiunti o sottratti alla scena rappresentata, di rifiniture (dorature, patine) (P1.20a e P1.20b / P1.21a e P1.21b / P1.76a e P1.76b / P1.75a e P1.75b), di aggiunte o di scontornature, ecc.

P1.20a e P1.20b                                          P1.21a e P1.21b

P1.76a e P1.76b                                    P1.75a e P1.75b

Nel caso di fusioni ottenute da esemplari a loro volta ricavati da precedenti fusioni, varianti possono essere state portate a queste seconde piuttosto che al prototipo.

Zinco.

Lo “zinco” (Zn) è il 30º degli elementi chimici che costituiscono l’universo.

Questo metallo, il cui punto di fusione è relativamente basso, ha la capacità di proteggere altri metalli dall’aggressione degli agenti atmosferici perché uno sottile strato di ossido si forma naturalmente sulla sua superficie. Questo metallo è infatti usato per zincare “a caldo” (cioé per immersione in una vasca di metallo fuso) o “a freddo” ( per deposizione elettrochimica del metallo sulle superfici da trattare) materiali piú vulnerabili quando esposti agli agenti atmosferici. Lo zinco è noto soprattutto perché, mescolato al rame nella proporzione del 10-20%, consente di ottenere una lega più fluida e lavorabile rispetto al bronzo. Di colore giallino, quando questo metallo non è ancora ossidato assomiglia all’oro: i romani chiamavano “oricalco” una lega molto simile all’ottone prodotta in Palestina giá dal II millennio a. C., molto usata in campo numismatico.

Note.

1.

Michael Riddick , The use and invention of plaquettes by the De Levis bronze foundry of Verona in “Academia”, rivista on line, New York, novembre 2020.

Alessandro Ubertazzi, L’uso e l’invenzione di placchette presso la fonderia di bronzi De Levis a Verona, versione italiana del testo “The use and invention of plaquettes by the De Levis bronze foundry of Verona” di Michael Riddick (www.democo.it).

2.

Marco Ottolini, Le caratteristiche delle medaglie rinascimentali fuse e delle loro copie, appunti per una conferenza forniti dall’Autore, giugno 2021.

3.

Francesco Rossi, La collezione Mario Scaglia; placchette, 3 volumi, Lubrina Editore, Bergamo, 2011. Codice ISBN 978.88.7766.451-1.

4.

Stefan Jeckel, “Russiche Metall-Ikonen in Formsand gegossener Glaube“, 2. Aufl.-Bramsche, Tasch, 1971. ISBC 3-922469-00-0.

Alessandro Ubertazzi, “Icone russe di metallo fuse in terra”, versione italiana delle pagg. 35-38 (Künstlerische Techniken), di Stefan Jeckel (www.democo.it).

5.

Si veda, ad esempio quanto riportato dalla versione on line della “Enciclopedia Treccani” (2021): placchétta s. f. [dim. Di placca]. – 1. In arte, piccolo bassorilievo, d’avorio, di bronzo o altro metallo, eseguito come riproduzione di pregiate opere di oreficeria o come ornamento di oggetti d’uso o decorativi (cofanetti, calamai, fermagli, ecc.). 2. non com. Opuscolo a stampa di poche pagine e a scarsa diffusione (adattamento ital. del fr. plaquette).

Nelle diverse lingue degli autori che hanno trattato i piccoli rilievi del periodo rinascimentale, il termine placchetta si traduce cosí:

  • francese: plaquette;
  • inglese: plaque;
  • tedesco: plakette
  • spagnolo: plaqueta
  • olandese: renaissance plaquette;
  • ungherese: emléktábla.

Didascalie.

G1.2a e G1.2b.

Fiorino coniato in oro dalla zecca di Firenze fra il 1252 e il 1304.

M1.2.

Medaglia di sapore esoterico di Carlo I detto il Temerario duca di Borgogna, concepita da Giovanni dei Filangieri di Candida e fusa in piombo; Francia, 1474.

M1.16a e M1.16b / M1.17a e M1.17b.

Due medaglie “di restituzione” dedicate a Didone, regina di Cartagine; la prima, particolarmente definita nei particolari, è opera di Alessandro Cesati; la seconda, è ricavata da un esemplare come il precedente e, pertanto, è leggermente piú piccola; Roma, metá del XVI secolo.

M1.47a e M1.47b.

Medaglia di Lorenzo Bernini, fusa in bronzo da François Cheron; Francia, 1764.

P3.79a e P3.79b.

Medaglia monofacciale di Costantino il Grande, fusa in bronzo chiaro da Cristoforo di Geremia; Roma, 1468.

P1.238.

Placchetta bifacciale di San Gerolamo in cera vergine d’api sul cui retro è rappresentato un ”Agnus Dei”; Roma, bottega sconosciuta, terzo quinto del XIX secolo.

P1.9a, P1.9b e P1.9c.

Anconetta votiva dotata di manico che rappresenta la Madonna col Bambino, Dio Padre e lo spirito Santo entro una complessa cornice ornata, destinata al “bacio di pace”, fusa in bronzo, è stata  realizzata verosimilmente a Padova da anonimo artista nei primi anni del XV secolo.

P2.2a e P2.2b / P2.3a e P2.3b.

Due appliques in bronzo fuso e dorato destinate verosimilmente a ornare croci astili.

Entrambe rappresentano il pellicano che nutre i figli come metafora del Cristo; la prima, potrebbe essere stata realizzata prima del 1590 nella bottega di Sebastiano Torrigiani; la seconda, è l’opera di anonimo artista di ambiente veneto realizzata fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo.

P1.4a e P1.4b.

Placchetta “ante litteram” in bronzo fuso che rappresenta un aquilotto stilizzato; Sicilia, XIV secolo.

P1.5a e P1.5b.

Placchetta “ante litteram” in bronzo fuso che rappresenta l’arcangelo Michele; Sicilia (?), fine del XIV secolo.

P1.20a e P1.20b / P1.21a e P1.21b.

Due placchette tonde fuse in bronzo (di cui una dorata) che rappresentano il “Giudizio di Paride”: destinate verosimilmente a ornare il pomolo di una spada, rappresentano due versioni della composizione ideata dal maestro IO.F.F. a Mantova verso la fine del XV secolo.

P1.76a e P1.76b / P1.75a e P1.75b.

Due placchette in bronzo fuso che rappresentano “Cristo che appare agli apostoli”; i due esemplari (di cui uno argentato) potrebbero essere stati concepiti da Lautizio da Perugia o da artista della sua cerchia a Milano attorno al 1520.

P1.180a e P1.180b / P1.161a e P1.161b.

Due placchette in bronzo fuso caratterizzate dalla presenza della raffigurazione della “Trinitá”: come giustamente evidenziato da Mike Riddick, entrambe, ancorché destinate a usi differenti e adattate entro diverso contesto, potrebbero essere uscite da botteghe della cerchia di De Levis (ambiente padovano) fra la fine del XVI e l’inizio del XVIII secolo.

M4.8a.

Punzone (modello) atto a realizzare matrici per placchette che rappresentano il busto stilizzato di un cavallo; scolpito in un segmento di lastra di acciaio rapido da Floriano Bodini per una bottega non identificata è stato realizzato a Milano attorno alla fine del XX secolo.

P6.1a, P6.1b e P6.1c.

Rilievo in metallo fuso a cera persa che rappresenta una “Caccia al leone”; potrebbe trattarsi di un modello preliminare alla realizzazione di molteplici placchette di quel soggetto, conosciute, peraltro, esclusivamente nella versione tonda; autore del rilievo potrebbe essere lo stesso Galeazzo Mondella attorno alla seconda metá del XV secolo.

P1.67a e b – P1.70a e b.

Quattro placchette di identico soggetto ma di forma differente che rappresentano “Coriolano alla battaglia di Roma”; realizzate in bronzo fuso dalla bottega del “maestro di Coriolano” testimonano come tali oggetti fossero di volta in volta modificati per corrisopondere al contesto cui erano destinate; Padova, attorno al 1500.

P1.333a, P1.333b e P1.333c.

Grande piastra in bronzo fuso che rappresenta l’“Abbandono di Romolo e Remo” secondo il modello in pietra litografica scolpito da Loy Hering; Germania meridionale, attorno al 1600. Le caratteristiche della piastra evidenziano il “calo dimensionale” dal modello originario, a mostrare che questa è frutto di successive rifusioni.

P1.155a e b – P1.157a e b.

Tre placchette che rappresentano l’“Adorazione dei pastori” fuse in bronzo (la prima con tracce di argentatura e di doratura); realizzate in area emiliana verosimilmente da un modello di Francesco Bonzagna a partire dal 1590, esse testimoniano come il perdurare dell’interesse per tale composizione abbia dato luogo a differenti edizioni e stesure.

P4.13a e P4.13b / P4.14a e b – P4.21a e b.

La medaglia, fusa in bronzo, che rappresenta Attila, costituisce verosimilmente il prototipo (concepito forse da Francesco da Sangallo alla metá del XVI secolo in area veneta) che ha dato luogo a una serie di scuccessive rifusioni le cui misure diventano progressivamente piú piccole nel tempo.

P1.89a e P1.89b / P1.91a, P1.91b e P1.91c.

Le placchette di sapore esoterico che rappresentano rispettivamente la “Metafora della rinascita della natura” (opera di Andrea Briosco detto il Riccio e realizzata a Padova nei primi anni del XVI secolo) e un “Combatttimento fuori porta” (anch’essa opera dello stesssto autore), testimoniano la “fortuna” riscossa da talune opere di autori maggiori: di esse sono state ralizzate piú copie ovvero sono stati realizzati esemplari piuttosto modificati rispetto a quellli ritenuti originali.

P1.108a e P1.108b.

La magistrale placchetta in bronzo fuso a cera persa (dorato e parzialmente argentato) rappresenta la composizione concepita da Galeazzo Mondella detto il Moderno a Padova all’inizio del XVI secolo; tale composizione, peraltro, ha riscontrato molteplici copie e rifacimenti. Le dimensioni, il materiale usato e la tecnica di realizazione di questo esemplare suggeriscono che esso potrebbe essere un originale ottenuto nella bottega di quell’Autore, sulla base dei componenti di quella realizzata in argento e conservata a Vienna.

G1.5a e G1.5b.

Sesterzio “contorniato” (esemplare realizzato da uno zecchiere romano nel IV secolo d.C. o rifacimento effettuato da medaglista rinascimentale nel XVI secolo).

M3.3.15a e M3.3.15b / M3.3.16.1a e M3.3.16.1b.

Due medaglie “contorniate” di Papa Paolo II Veneto realizzate a Roma da Cristoforo di Geremia nel 1465.

P1.101a e P1.101b / P1.102a e P1.102b / / P1.103a e P1.103b.

Tre placchette che rappresentano la “Crocifissione con popolo e armigieri” concepita da Galeazzo Mondella detto il Moderno a Padova all’inizo del XVI secolo; i tre esemplari costituiscono la versione originale (P1.101), una vesione derivata ma coeva (P1.102) e una versione chiaramente falsa (P1.103).

P4.24a e P4.24.b.

Una bella “galvano” dalla medaglia originale di Attila concepita da anonimo artista di area veneta nel XVI secolo (di quella medaglia esistono anche delle versioni derivate: cfr. P4.23).

Schede allegate all’articolo “A proposito di placchette; modello, matrice, originale, prototipo, copie, varianti e falsi” di Alessandro Ubertazzi, pubblicato su www.antiquanuovaserie.it del Dicembre 2021.

G1.2.

Fiorino giglio florentia / San Giovanni Battista.

Moneta aurea.

Zecca fiorentina, Firenze Repubblica, 1252-1304.

Oro puro coniato.

Ø 19,51 mm.; 3,49 gr, inedita.

Questa moneta d’oro puro che, nel corso dei secoli, ha subito lievi modifiche, costituisce uno dei documenti di credito più famosi del mondo antico e aveva libera circolazione in tutto il territorio allora conosciuto.

Sopra alla mano dx del Santo è tradizionalmente punzonato il simbolo dello zecchiere preposto alla coniazione di quel determinato lotto di fiorini: poiché il nome di quei funzionari della Repubblica con relativo simbolo era annotato sui Registri ufficiali, questo fatto consente di datare con precisione la moneta.

F.  Il fronte reca al centro il famoso “giglio”, in realtà un iris stilizzato (simbolo di Firenze alla quale città fornisce il suo emblematico colore blu viola); a dx la scritta + FLOR e, a sx, la scritta ENTIA.

R. Al centro, San Giovanni nimbato stante avvolto in una pelle di montone; egli tiene nella mano sx un’asta con la Croce e, dietro di lui, si vede un telo fiammeggiante; attorno, a dx, la scritta + ∙ S ∙ IOHA e, a sx, NNES B +.

M1.2.

Dux Carolus Burgundus / Tosone d’oro e acciarini; Je lai emprins; bien en aviengne

(Carlo il Temerario, Duca di Burgundia / Toson d’oro e acciarini; l’ho intrapreso, bene ne venga).

Medaglia.

Candida, Francia (Neuss), 1474.

Piombo fuso.

Ø 38,25 mm (senza appiccagnolo); 32,40 gr., inedita.

La curiosa medaglia di sapore esoterico che fa riferimento al “toson d’oro” (emblema della dinastia dei Plantageneti) è dedicata a Carlo duca di Borgogna detto il Temerario.

F.  Il profilo laureato del Duca è rivolto a dx; ai due lati si legge DVX KAROLVS (a sx) e BVRGVNDVS (a dx) (Carlo duca di Burgundia).

R. entro una cornice di foglie d’alloro, al centro, sta accovacciato l’ariete che allude al toson (vello) d’oro costituito dalla sua pelliccia. Esso è affiancato da una coppia di acciarini (sul primo dei quali, a sx, si trova la scritta VELLVS e sul secondo, a dx, la scritta AVREVM che, sfregati su altrettante pietre focaie, emettono scintille che si espandono costellando l’intero spazio libero; sopra al toson d’oro si legge la scritta IE LAI EMPRINS e sotto BIEN EN AVIENGNE (je l’ai entrepris, bien en viendra).

In effetti, in italiano, il motto del duca suonerebbe «l’ho intrapreso, ne uscirà qualcosa di buono» ovvero «l’ho intrapreso, posso riuscire».

M1.16. – M1.17.

Διδω βασιλισσα / Kαρχηδων

(Didone regina / Cartagine):

  • esemplare a;
  • esemplare b sottile.

Medaglie.

Alessandro Cesati (detto il Grechetto), Roma, circa metà del XVI secolo.

M1.16.

M1.17.

F.  Entro una cornice di perline, il busto della regina Didone, vista di profilo e volta a dx, evidenzia una complessa capigliatura trattenuta da una corona d’alloro; a sx la scritta ΔΙΔΩ seguito da una foglia, a dx ΒΑΣΙΛΙΣΣΑ (regina).

R. Sul retro è rappresentata una città immaginaria (Cartagine) vista dall’alto in prospettiva con galee: cinta di mura e affacciata sul mare con il suo porto, contiene templi, circhi, obelischi e colonne. Sulla sx, una scritta ΚΑΡΧΗΔΩΝ (Cartagine).

M1.16

Esemplare a.

Bronzo fuso, tutto spessore, patina scura.

Ø 44,71 mm.; spessore 4 mm.; 57,11 gr.

M1.17.

Esemplare b sottile.

Bronzo fuso, spessore sottile, patina naturale chiara, foro sopra la testa di Didone.

Ø 42 mm.; 14,38 gr.

M1.47.

Eques Joa. Laurent. Berninus etatis sue anno 76 / Singularis in Singulis in omnibus unicus

(Il cavalier Lorenzo Bernini all’etá di 76 anni – [1674] / Allegoria delle arti; singolare fra i singoli, fra tutti unico).

Medaglia.

Charles Jean François Cheron, Francia, 1674.

Bronzo fuso.

Ø 72,6  mm, inedita.

La bella medaglia (commissionata espressamente dal re di Francia XIV), celebra Lorenzo Bernini (1598-1680).

F.    Il busto dell’artista-architetto è rappresentato volto a dx, avvolto da mantello sopra il camicione: l’artista porta capelli lunghi fluenti, è stempiato e ha i baffi; tutto attorno si legge la scritta EQVES · IOA[NNES] · LAVRENT[IVS] · BERNINVS · [A]ETATIS SV[A]E · ANNO[RVM] · 76/1674 (il cavalier Gianlorenzo Bernini all’etá di 76 anni, 1674); sotto al busto, la firma F. Cheron.

R.   Sul retro è rappresenta l’allegoria delle arti; quattro giovani donne sono affaccendate nello svolgere l’attività che esse rappresentano; tutto attorno, la scritta SINGVLARIS · IN SINGVLIS · IN OMNIBVS · VNICVS (speciale nelle singole cose unico in tutte); sotto l’esergo, ancora la firma F. Cheron.

P3.79.

Costantino il Grande.

Medaglia monofacciale in bronzo giallo.

Cristoforo di Geremia, Roma, 1468.

Bronzo fuso.

Ø 71,6 mm, inedita.

La bella medaglia monofacciale rappresenta il busto dell’imperatore Costantino il Grande volto a dx con il capo coronato di quercia; indossa il paludamentum fermato a dx da un medaglione; tutto attorno la scritta CAESAR IMPERATOR PONT[IFEX] / P[ATER] P[ATRIAE] P[ROCONSVL] E[T] / SEMPER AVGVSTVS VIR (Cesare imperatore pontefice [massimo] P[roconsole] P[adre della] P[atria] e sempre augusto uomo); cornice di perline, probabilmente eseguita da Cristoforo di Geremia (sul retro delle medaglie bifacciali appare sotto l’esergo la firma CRISTOPHORVS HIERIMIAE F[ECIT] e non F[ILIUS] nel 1468 in occasione della visita di Federico II a Roma.

P1.238.

San Gerolamo / Agnus Dei.

Placchetta bifacciale in cera.

Autore sconosciuto, Roma, terzo quarto del XIX secolo.

Cera vergine.

88,3 x184 mm, inedita.

Questa curiosa placchetta realizzata in cera vergine è da collegare a una consuetudine religiosa romana.

F.  Il fronte rappresenta San Gerolamo nimbato seduto su una roccia mentre legge un libro; al suo fianco il caratteristico suo simbolo: il leone; tutto attorno la scritta SANTVS ∙ HIERONYMVS ∙ PRESB[ITERVS] ∙ ET ∙ ECCL[ESIAE] ∙ DOCT[OR] con altre lettere illeggibili.

R. Un agnello nimbato è rappresentato accovacciato sullo sfondo di una sottile croce e del libro; tutto attorno la scritta ECCE ∙ AGNVS ∙ DEI ∙ QVI ∙ TOLL[IT] ∙ PECC[ATA] ∙ MVN[DI] / PIVS IX ∙ PON[IFEX] ∙ MAX[IMVS] ∙ XXI.

P1.9.

Madonna col Bambino, Dio padre e lo Spirito Santo.

Grande pace.

Artista anonimo, Padova, primi anni del XV secolo.

Bronzo fuso, patina chiara; quattro fori, di cui due utilizzati per fissare il manico mediante ribattini in ferro; retro incuso.

132,25 x 209,35 mm, inedita.

Questo importante bronzo rappresenta simbolicamente la Trinità entro una piccola ancona votiva destinata al “bacio di pace” dei fedeli (in occasione della Pasqua).

Al centro della composizione, Maria Vergine è rappresentata seduta di fronte su un trono con predella mentre tiene il Bambino sul ginocchio sx; con i capelli sparsi e vestita con un ampio abito, essa appare al centro di un sistema architettonico formato da lesene e paraste ornate, sullo sfondo delle quali due angeli sembrano volerla incoronare; appoggiati ai plinti della composizione architettonica, due altri angeli rovesciano verso terra due torce come per ribadire simbolicamente la fine delle vicenda umana di Cristo; sopra al timpano dell’anconetta, in alto, appare Dio Padre che regge nella mano sx il globo sotto al quale, nel timpano stesso, si nota la colomba dello Spirito Santo; alla base del timpano si legge la scritta PAX VOBIS.

La scena si completa con due altri angeli che siedono ai lati della copertura del Tempio e con quattro cherubini posti rispettivamente al di sopra dei capitelli delle lesene.

Tutta l’impostazione ornamentale con lesene ornate a candelabre, zoccolo inferiore architettonicamente ben strutturato e ingentilito mediante girali e impostazione all’antica lasciano ritenere che si tratti di opera maturata in ambiente neoplatonico; sul retro, un manico in bronzo fuso è attaccato con ribattini.

La Pace è stata da me acquistata a da un antiquario che la possedeva a partire dalla meta degli anni ’30 del XX secolo. Questo oggetto si trovava appeso al soffitto del locale dove era stato collocato quando, a suo dire, l’antiquario l’aveva comprata da un tedesco (ebreo?) n fuga dalla Germania.

Alla richiesta del prezzo, il negoziante mi disse che, per la legge svizzera, egli era tenuto a vendermela al prezzo indicato sul cartellino (che non era stato cambiato da quei lontani anni, dato che nessuno si era dimostrato interessato all’acquisto) e che, probabilmente, il suo prezzo era molto basso; egli me l’avrebbe ceduta comunque, un po’ divertito dal fatto che, unico, l’avessi adocchiata nella moltitudine degli oggetti presenti: ed effettivamente, il prezzo era basso.

P2.2.

Cristo Pellicano che nutre i suoi piccoli.

Bottega di Sebastiano Torrigiani, Roma, prima del 1590.

Applique dorata.

P2.2.

Bronzo fuso con patina naturale e tracce di doratura, due fori; retro incuso.

35,7 x 40,08 mm.; 19,60 gr., inedita.

La placchetta rappresenta un pellicano visto frontalmente con il lungo collo piegato verso il petto nel punto in cui i tre pulcini attingono il cibo.

In passato si riteneva che la femmina di questo animale estraesse direttamente dal petto il cibo per i piccoli: in realtà, essa vomita nei loro becchi i pesci in parte già masticati per facilitarne l’assunzione.

Con tutta evidenza, la composizione costituisce la metafora del Cristo che si sacrifica per il suo “gregge”.

Una placchetta particolarmente simile si trova sulla base della croce d’altare commissionata da Clemente VIII, custodita nel Museo Diocesano di Mantova.

(cfr. scheda P1.152)

P2.3.

Cristo Pellicano che nutre i suoi piccoli.

Anonimo artista di ambiente italiano (Veneto ?), fine XV – inizio XVI secolo.

Applique.

P2.3.

Bronzo fuso, patina naturale, quattro fori.

51,54 x 44,09 mm.; 27,32 gr., inedita.

La placchetta ritagliata rappresenta un pellicano di profilo nell’atto di squarciarsi il petto per nutrire i suoi tre pulcini entro un nido.

In passato si riteneva che la femmina di questo animale estraesse direttamente dal petto il cibo per i piccoli: in realtà, essa vomita nei loro becchi i pesci in parte già masticati per facilitarne l’assunzione.

Con tutta evidenza, la composizione costituisce la metafora del Cristo che si sacrifica per il suo “gregge”.

P1.4.

Aquilotto.

Piccola placchetta ante litteram tonda.

Artista anonimo, Sicilia (?), XIV secolo (?).

Bronzo fuso a cera persa con patina scura; retro liscio.

Ø 33,03 mm.; 35,71 gr., inedita.

Il piccolo rilievo circolare rappresenta un aquilotto che sembra riferirsi più alla monetazione coniata dagli aragonesi in Sicilia che alla loro araldica.

La fusione nitida e di adeguato spessore potrebbe essere stata usata come borchia.

P1.5.

L’arcangelo Michele.

Piccola placchetta ante litteram tonda.

Artista anonimo, ambiente siciliano (?), fine del XIV secolo (?).

Bronzo fuso, patina bruno scura, foro in alto; retro liscio leggermente convesso.

Ø 40,07 mm.; 19,48 gr., inedita.

L’arcangelo Michele, alato, nimbato e vestito di corazza romana, è visto di fronte e sostiene una sottile croce con la mano dx e una bilancia con la mano sx con la quale sta pesando delle anime; ai suoi piedi si trova il demonio nell’atto di venire trafitto con la suddetta croce-lancia.

Ai due lati della scena sventolano due lunghi stendardi.

P1.20 – P1.21.

Giudizio di Paride:

esempio a, dorato (Courajod);

esemplare b.

Placchette tonde.

Giovanni di Fondulino Fonduli da Crema (Maestro IO.F.F.), Mantova, metà del XV secolo.

P1.20.

Esemplare a.

Bronzo chiaro con tracce di doratura (il fondo è lievemente puntinato per facilitare la doratura); lievemente convessa; foro in alto; retro incuso.

Sul retro un’etichetta reca le scritte n. 27/M Courajod e un’altra, più recente, reca il n. 897.

Ø 55,70 mm.; 39,39 gr., inedita.

P1.21.

Esemplare b.

Bronzo rossiccio; retro incuso.

Ø 54,51 mm.; 35,76 gr., inedita.

Le placchette rappresentano il cosiddetto “Giudizio di Paride”: a sx, sotto un albero brullo, un giovane uomo nudo di profilo e di fronte sta seduto su una pietra; egli tiene un flauto nella mano sx e porge un pomo d’oro alla donna semivestita (Venere) che sta di fronte a lui con la mano dx aperta; i cui fianchi sono avvolti da un velo mentre la testa è munita di ali. Dietro di lei, completamente nuda di profilo verso sx, si vede un’altra donna (Giunone) e un’altra ancora, nuda di tre quarti (Minerva), tiene nella mano dx un oggetto non decifrabile e con la mano sx stringe una lancia e uno scudo. Sopra di loro vola Cupido con la sua freccia.

Sotto l’esergo la scritta IO.F.F.

P1.75. – 1.76.

Cristo appare agli apostoli.

Placchette.

Lautizio da Perugia o artista della sua cerchia(?), Scuola milanese (?), XVI secolo (circa 1520).

Sotto un arco rettangolare Cristo, in piedi e benedicente, appare agli apostoli riuniti; cinque sono a dx e altrettanti a sx; egli porta nella mano sx un’esilissima croce, simbolo del suo martirio.

P1.75.

Cristo appare agli apostoli (esemplare a).

Bronzo fuso con patina bruno chiara; retro liscio.

68,00 x 94,7 mm.; 118,35 gr., tre fori in alto, inedita.

P1.76.

Cristo appare agli apostoli (esemplare b con tracce di argentatura).

Bronzo fuso con tracce di argentatura, spatinata; retro liscio.

69,9 x 100,02 mm.; 90,21 gr., due fori in basso, inedita.

P1.180.

Trinità con i Santi Cristoforo e Francesco.

Placchetta-Medaglione di confraternita.

Anonimo artista, scuola veneziana, inizio del XVII secolo.

Bronzo fuso di colore chiaro, sul retro si notano tre asole fuse assieme che, forse, servivano per portare l’oggetto a mo’ di medaglione; retro incuso.

74,00 x 97,50 mm.; 95,99 gr., inedita.

Entro una cornice ellittica doppia e lineare, la Trinità appare dall’alto di una nuvola a due Santi inginocchiati ai due lati in basso. Dio Padre, barbuto e nimbato, sostiene fra le ginocchia una Croce con il Cristo: su di essa è posato lo Spirito Santo in forma di colomba. Dio Padre poggia i suoi piedi sul corpo di un cherubino alato.

Per quanto concerne i due personaggi inginocchiati ai piedi di Dio Padre, quello a sx porta sulle spalle il Bambino (che, a sua volta, tiene nella mano dx un globo sormontato dalla Croce), nella mano sx tiene un ramo di palma e un lungo bastone di legno nella dx: esso dovrebbe essere San Cristoforo. L’altro, vestito di saio, dovrebbe essere San Francesco.

La rappresentazione della Trinitá di questa placchetta (si veda, ad esempio, la placchetta P1.161) appartiene a un’iconografia piuttosto diffusa nel XIV secolo; tale Trinitá è assai simile ad altre alle quali, di volta in volta, attorno alla cera occorrente per ottenerla, è stata aggiunta la cera di un contesto differente a seconda della loro destinazione.

La placchetta, di elevata qualità, potrebbe essere il medaglione di appartenenza a una confraternita.

Sul retro, un’etichetta indica il n. 28.

P1. 161.

Trinità entro cornice di mascheroni e cherubini.

Placchetta ritagliata e scontornata.

Autore sconosciuto (della cerchia di Giuseppe de Levis?), ambiente veneto-padovano,

fine XVI secolo.

Bronzo fuso; patina naturale di media intensità; tre fori (in alto e ai lati); retro incuso.

81,14 x 94,71 mm.; 66,22 gr., inedita.

Dio padre scontornato è seduto in trono; coronato e barbuto, regge fra le mani la croce sulla quale Cristo è crocefisso mentre lo Spirito Santo (in forma di colombo) sta sulla cima del palo verticale della Croce. Dio padre poggia i piedi sul capo di un cherubino alato.

La stessa composizione contenuta nella cornice si riscontra anche nel medaglione da confraternita (P1.180).

M4.8.

Cavallo.

Punzone (modello) per matrici di placchette.

Floriano Bodini per una bottega non identificata, Milano, fine del XX secolo.

Cilindro di acciaio rapido tornito e scolpito.

Ø15,5  x h. 6,7 mm, inedito.

Il punzone (modello) costituisce l’originale dal quale si ottengono le matrici per la coniazione di placchette.

La placchetta in questione, che rappresenta il busto stilizzato di un cavallo, è firmata a dx in basso Bodini.

Il punzone reca impresso il n. 020962-D.

Si tratta di uno dei pochissimi punzoni di Bodini in mano privata (da questo punzone che, come è noto, sul mercato dell’arte è considerato l’originale della composizione) volendo, si potrebbero ricavare copie autentiche della placchetta.

P6.1.

Caccia al leone.

Galeazzo Mondella, detto il Moderno (?), Padova, seconda metà del XV secolo.

Modello per placchette (?).

Peltro (zinco?) fuso in terra (?), patina scura; foro in alto; retro lievemente incuso e quasi liscio.

79,1 x 70,04 mm.; 101,13 gr., inedita.

Questo singolare rilievo costituisce l’unico esemplare  rettangolare conosciuto della placchetta di identico soggetto ma circolare.

In primo piano un piccolo leone sta aggredendo un uomo nudo che, a terra, si difende con lo scudo; due altri personaggi a cavallo, nudi e dotati di scudo, cercano di distrarre il leone dalla sua preda; il cavaliere di sx lascia alle sue spalle una tunica al vento; due altri guerrieri a piedi completano la composizione a dx e a sx.

La composizione è posata su un esergo orizzontale e sembra fosse destinata a una soluzione rettangolare, semmai dotata di conclusione leggermente curva sul lato superiore.

Anche per le sue dimensioni, la placchetta sembra il modello dal quale sono tratte quelle circolari conosciute (le quali, peraltro, racchiuse nel cerchio, sembrano un po’ “forzate” soprattutto in basso a dx): cfr., ad esempio, la placchetta tonda fig. 164 (n. 168) ella collezione Samule Kress.

P1.67. – P1.70.

Coriolano alla battaglia di Roma.

Placchette.

Maestro di Coriolano, Padova, attorno al 1500.

La tipologia di queste placchette concerne la Battaglia di Coriolano davanti alle mura di

Roma.

Al centro della composizione, Coriolano nudo sul suo cavallo, galoppa verso dx con l’elmo in testa; davanti a lui due guerrieri altrettanto nudi con elmo e scudo lo contrastano; dietro di lui un altro armato con scudo avanza verso il centro; sul retro molti altri guerrieri a piedi e cavalieri lottano aspramente; sul suolo giacciono corpi di guerrieri morti e armi; sullo sfondo si notano le mura della Città Eterna.

P1.67.

Coriolano alla battaglia di Roma (esemplare a; rettangolare).

Bronzo fuso con patina scura, foro in alto; retro liscio.

49,41 x 42 mm. 33,02 gr., inedita.

La scena si svolge entro una duplice cornice lineare.

P1.68.

Coriolano alla battaglia di Roma (esemplare b; rettangolare con angoli smussati).

Bronzo fuso con patina scura, foro in alto; sul retro liscio una scritta in vernice rossa non leggibile; un’etichetta vecchia reca i numeri 112/742°; un’etichetta più recente porta il numero 33/a.

49,9 x 41,7 mm.; 30,71 gr. inedita.

Idem come sopra ma la placchetta è smussata sui due angoli in alto.

P1.69.

Coriolano alla battaglia di Roma (esemplare c; tondo).

Bronzo fuso con patina scura; retro liscio.

Ø 54,0 mm.; 40,34 gr., inedita.

Idem come la prima con cornice lineare e in forma rotonda; la scena si svolge su un esergo lineare.

P1.70.

Coriolano alla battaglia di Roma (esemplare d; tondo).

Bronzo fuso con patina scura, foro in alto; retro liscio.

Ø 51,75 mm.; 36,27 gr., inedita.

Idem come sopra senza cornice.

P1.333.

Die Auszetung von Romulus und Remus.

(L’abbandono di Romolo e Remo).

Piastra.

Autore sconosciuto (su modello di Loy Hering, 1530), Germania meridionale, attorno al 1600.


Bronzo patinato scuro, alcuni piccoli difetti di fusione; retro incuso.

153 x 208 mm.; 847 gr., inedita.

La grande placchetta, una piastra, rappresenta la sottrazione di Romolo e Remo a Rea Silvia. Questa è in piedi completamente nuda, vista di fronte, mentre atteggia le braccia come per sorreggere qualcosa stringendo le mani: tiene i lunghi capelli sciolti e, al suo fianco dx, si notano due tronchi d’albero. Più arretrato, Faustolo, anch’egli nudo, si avvia verso sx tenendo i due gemelli Romolo e Remo con le braccia.

Sullo sfondo si nota un muro dietro al quale vi sono case, alberi e un castello; in alto, a sx, pende un cartello sul quale si legge (ESA 14) / QVOD D[OMI]N[V]S / EXERCITITVV[M] DECR/EVIT Q[VI]S DISSIPABIT / RHEA.ROMVLVS.REMVS (cfr. Isaia XIV, 27; Dominus enim exercituum decrevit; et quis poterit infirmare).

La Weber descrive questa placchetta nel capitolo “Kunstkammersrücke der Renaissance vor und nach 1600” del testo “Deutsche, Niederländicshe und Französische Renaissanceplaketten 1500-1600; Modelle für Reliefs an Kult-, Prunk- und Gebrauchsgegenständen” (cfr, tavola 212, pag. 327); l’esemplare della mia collezione mostra le stesse caratteristiche di quello in bronzo (758) conservato al Museo di Digione (15,4 x 20,8 cm.). essa riporta, altresí, anche il modello (758) scolpito in pietra litografica da Loy Hering attorno al 1530 e conservato al Victoria and Albert Museum di Londra (17,7 x 22,3 cm.).

P1.155. – P1.157.

Adorazione dei pastori (PARM INVENT, 1561).

Adorazione dei pastori.

Adorazione dei pastori (GORIA IN EXCELSIS DEO, 1590).

Placche.

Pellegrino Tibaldi o Gian Francesco Bonzagna (?), area emiliana, seconda metá del XVI

secolo e successivamente.

  P1.155.

  P1.156.

 P1.157.

Sullo sfondo di un arco trionfale sorretto da colonne ioniche di un tempio a base circolare e altre architetture, è ambientata una Natività: a dx, accovacciata, la Madonna, volta a sx, osserva il Bambino e gli tende la mano sx; dietro di lei, in piedi e volto a sx, San Giuseppe trattiene l’asinello mentre il bue sembra alitare sul Bambino adagiato su un panno a sua volta steso su un capitello diroccato.

A sx, in ginocchio su una colonna diroccata e volto all’indietro, un pastore tiene un cane sotto al braccio sx; altri quattro pastori sono in piedi, volti a dx: il primo suona una cornamusa, il secondo lo guarda, il terzo è munito di lungo bastone e il quarto più lontano; un giovane contadino è inginocchiato al centro; nell’angolo a sx in alto brilla la stella cometa.

Può essere interessante notare che alcune varianti di questa placchetta (fra le quali due delle nostre) recano una data sotto al capitello caduto a terra.

P1.155.

Adorazione dei pastori (esemplare a; dorato e parzialmente argentato).

Bronzo giallino fuso; i volti e le membra delle persone sono argentate mentre tutto il resto è dorato; il retro è piano.

Sulla trabeazione dell’arco trionfale si legge la scritta ∙PARM∙INVENT∙; sul capitello diroccato si legge la data 1561.

144,51 x 191,94 mm.; 842 gr., inedita.

P1.156.

Adorazione dei pastori (esemplare b).

Bronzo rossiccio fuso con controstampo; patina scura.

Questa placchetta è piú piccola dell’esemplare a. in quanto la sua matrice è stata evidentemente derivata da un esemplare della tiratura precedente: l’apparente consumo dei tratti di persone e cose non è infatti dovuto a un uso prolungato ma da successivi passaggi fusori.

Sulla trabeazione dell’arco trionfale non vi è alcuna scritta.

140,2 x 188,6 mm.; 739 gr., inedita.

P1.157.

Adorazione dei pastori (esemplare c; con appiccagnolo).

Bronzo chiaro fuso, spatinato, retro incuso; appiccagnolo fuso assieme.

Rispetto all’esemplare a., anche questa placchetta è leggermente più piccola per gli stessi motivi della precedente; gli abiti dei personaggi sono ornati con disegni in rilievo e il capitello reca la data 1590.

Sulla trabeazione dell’arco trionfale si legge la scritta GORIA (sic!) IN EXCELSIS DEO.

138,8 x 185,3 mm. (senza appiccagnolo); 605 gr., inedita.

P4.13.

Attila rex / Aquileia.

Medaglia fusa.

Francesco da Sangallo (?), area veneta (?), metà del XVI secolo.

Bronzo fuso di elevata qualità con patina bruno scura.

Ø 54,89 mm.; 82,61 gr.

F.  La grande medaglia bifacciale rappresenta la testa di Attila con aspetto caprigno, volta a dx e vestita con corazza regale; il condottiero porta un’ insegna militare sul petto e attorno si legge la scritta *ATTILA*/*REX*

R. la medaglia rappresenta una città murata sovrastata dalla scritta *AQVILEIA*.

I segni di interpunzione sono costituiti da altrettante girandole a tre punte (triscele).

Secondo Alviano Scarel (in Aa.Vv. Attila e gli Unni, Roma, febbraio 1996, pagg. 117-123), questa splendida medaglia (sconosciuta a Louis Huszár) dovrebbe essere stata concepita da Francesco da Sangallo (e comunque ne rivela la maniera) attorno alla metà del 1500; essa costituisce quasi certamente il modello per la molteplicità di successive “riprese” e ispirazioni.

Si noti come questa opera, come molte altre di epoca successiva, appare più celebrativa che denigrativa del controverso personaggio rappresentato dal fiero condottiero.

P4.14. – P4.21.

Attila rex / Aquileia. (8 esemplari)

Medaglie bifacciali.

Botteghe ignote, area veneta e centro Europa, a partire dal XVI secolo.

Serie di medaglie, di qualità non sempre eccellente, che costituiscono la divulgazione di un modello apprezzato per diversi secoli verosimilmente come simbolo di cultura laica. Alviano Scarel (in Aa.Vv. Attila e gli Unni, Roma, febbraio 1996, pagg. 117-123) sostiene che esse derivino da una di dimensioni assai maggiori (cfr. P4.13) che sarebbe da attribuire al Sangallo o ad altro validissimo artista che si esprime… alla sua maniera.

Le singole varianti dipendono forse da successivi modelli di volta in volta ricavati da modelli  precedenti e perciò sempre più ridotte di diametro: in questo senso il capostipite potrebbe essere ravvisato nella medaglia P4.13.

Questi esemplari, come molti altri di epoca successiva, appaiono più celebrativi che denigrativi del personaggio controverso rappresentato da Attila.

La serie di medaglie si distingue da altre successive anche per il tipo particolare dei segni di interpunzione che sono costituiti da girandole a 3 punte.

P4.14.

Attila rex / Aquileia (esemplare a).

Bronzo fuso di buona qualità; patina nerastra.

Ø 49,42 mm.; 42,48 gr., inedita.

P4.15.

Attila rex / Aquileia (esemplare b).

Argento fuso; patina scura.

Ø 49,4 mm.; 45,01 gr., inedita.

P4.16.

Attila rex / Aquileia (esemplare c).

Argento fuso.

Ø 47,08 mm. (senza appiccagnolo); 46,28 gr., inedita.

P4.17.

Attila rex / Aquileia (esemplare d).

Bronzo rossiccio fuso con patina marrone scuro.

Ø 46,9 mm.; 47,88 gr., inedita.

P4.18.

Attila rex / Aquileia (esemplare e).

Ottone fuso e argentato (con appiccagnolo).

Ø 46,8 mm. (senza appiccagnolo); 45,31 gr., inedita.

P4.19.

Attila rex / Aquileia (esemplare f).

Ottone fuso e argentato (tracce di saldatura per un appiccagnolo perso).

Ø 47,2 mm.; 47,26 gr., inedita.

P4.20.

Attila rex / Aquileia (esemplare g).

Bronzo giallo fuso con tracce di argentatura ossidata.

Ø 46,4 mm.; 42,44 gr., inedita.

P4.21.

Attila rex / Aquileia (esemplare h).

Ottone fuso, spatinato.

Ø 44,9 mm.; 38,44gr., inedita.

P1.89.

Metafora della rinascita della natura.

(Trionfo di un eroe).

Placchetta.

Andrea Briosco detto il Riccio, Padova, primi anni del XVI secolo.

Bronzo fuso a cera persa, patina bronzo giallastra chiara; tentativo di foro in alto al centro; retro liscio.

103.00 x 76,00 mm.; 141, 01 gr.

Questa placchetta (che, nel corso degli anni, ha suscitato pareri diversi circa l’artista che l’avrebbe concepita) ha un impianto fortemente allegorico.

Al centro, su una predella, si osserva una figura maschile ignuda di fronte, con un corno nella mano dx; accanto a lui, a sx, una figura femminile alata (Vittoria), anch’essa ignuda pone la sua mano sx sulla spalla del primo personaggio; a dx, un bue è trattenuto da un uomo sommariamente vestito, inginocchiato sulla predella mentre un altro uomo, all’estrema dx, brandisce una spada per trafiggerlo.

All’estrema sx si trovano due figure femminili vestite con chitone e che tengono in mano uno stendardo e un ramo di alloro.

Sullo sfondo, al centro e a dx, vi sono due flautisti e un sacerdote barbuto che regge un ramo di alloro. Accanto all’eroe si nota un vaso dal quale spuntano due rami di alloro e un serpente; nell’angolo in basso a sx si nota un vaso dal quale esce un serpente.

Sullo sfondo a dx si nota un porticato ad archi, in parte diroccato, mentre a sx si nota una palma e a dx un albero di alloro. A sx della palma sventola uno stendardo.

Come è stato evidenziato anche da Marika Leino, tutti gli esemplari conosciuti di questa placchetta recano la traccia di un foro risarcito come se essi fossero tutti ricavati da un precedente rilievo originale forato.

P1.91.

Combattimento fuori porta.

(Combattimento alle porte di una cittá; Combattimento alle porte della cittá).

Placchetta.

Andrea Briosco detto il Riccio, Padova, 1506-1507.

Bronzo fuso con patina marrone scuro; retro liscio.

101,01 x 137 mm.; 511 gr., inedita.

La grande placchetta rettangolare (più alta e più ampia della gran parte delle altre conosciute) rappresenta un combattimento che si svolge alle porte di una città: cfr., ad esempio, la placchetta rettangolare fig. 115 (n. 218) ella collezione Samuel Kress.

Cavalieri e fanti si scontrano in un impeto furibondo; sul terreno (che, nella parte bassa, sembra aumentare di spessore come per suggerire profondità di campo) si notano armi e frammenti di armature. Sullo sfondo della città murata si stagliano articolate architetture; fra queste, una torre parzialmente diroccata (al centro), una porta urbana sovrastata da un loggiato e da un timpano dal quale sventola un vessillo; si notano anche altre torri ed eleganti edifici. Sulla sx della composizione si notano alcune rocce sulle quali si trova un albero; la parte alta della placchetta è vuota concedendo adeguato respiro alla scena.

P1.108.

Sacra conversazione.

(Madonna in trono).

Placchetta.

Galeazzo Mondella, detto il Moderno (bottega?), Padova, inizio XVI secolo.

Fusione in bronzo a cera persa anteriormente dorata a mercurio; retro incuso.

107,2 x 143,6 mm.; 264,6 gr.

Questa straordinaria e raffinatissima placchetta, normalmente rappresenta quella che viene definita una “Sacra conversazione”. In realtà, come è stato rilevato da alcuni studiosi che si son dedicati alla decifrazione del significato stesso della composizione, in prima istanza la scena può apparire come la Madonna in trono con il Bambino attorniata da alcuni santi; tuttavia, a un esame più approfondito, la scena risulterebbe di esplicito sapore iniziatico-misterico.

In questo senso, la Grande Madre siede su un trono a sua volta collocato su una sorta di ara sacrificale (sul fronte della quale è rappresentata una “suovetaurilia”); le cinque figure in piedi (fra le quali un personaggio completamente nudo visto di fronte e un altro vestito da guerriero romano) possono essere “lette” anche in chiave laica-esoterica.

G1.5.

Lucio Vero / Soldato a cavallo che uccide un nemico.

Copia antica o rifacimento di sesterzio contorniato.

Zecchiere romano del IV secolo d.C o medaglista rinascimentale del XVI secolo.

Metallo bianco (argento?) fuso.

Ø max 48,36 x 42,55 mm.; 43,5 gr., inedita.

La moneta (sesterzio) contorniata rappresenta, sul fronte, il profilo dell’imperatore romano; se ritenuta autentica, aveva (nel 169 d.C.), allora quasi come oggi, il significato di una medaglia di restituzione (in realtà, medaglie dei personaggi più importanti allora non esistevano se non in questa forma); assai più verosimilmente potrebbe trattarsi di una copia rinascimentale dall’antico.

F.  Lucio Vero laureato e corazzato è volto a dx; bordo contorniato; tutto attorno la scritta

L[VCIVS] VER[VS] AVG[VSTVS] ARM[ENIACVS] PARTH[ICVS] MAX[IMVS] TR[IVMPHATVR] P[ONTIFEX] VIIII (Lucio Vero Augusto armeniaco massimo trionfatore sui Parti nono pontefice).

R. Un cavaliere galoppa verso dx mentre sotto di lui giace un soldato ferito; dietro di lui un altro soldato cerca di colpirlo; attorno e in esergo, scritte illeggibili.

M3.3.15.

Paolo II veneto, pontef. mass. / Stemma papale, Has aedes condidit…

Medaglia contorniata.

Cristoforo di Geremia, Roma, 1465.

F.  Al centro della medaglia è rappresentato il busto di papa Paolo II Barbo visto di profilo e volto a sx; davanti a lui, in tondo, vi è la scritta PAVLVS · II · VENETVS ·· PONT[IFEX] · MAX[IMVS].

R. Rovesciato di 180°, il retro reca lo stemma papale e cornice a perline; tutto attorno la scritta HAS AEDES CONDIDIT ANNO CHRISTI MCCCCLXV.

La medaglia in questione costituisce la versione “contorniata” della M3.8.

Questa variante intende riprendere l’ipotesi rinascimentale che i romani avessero fatto medaglie di taluni imperatori aggiungendo al conio della faccia della loro moneta una cornice che la rendesse più grande e, appunto, la mettesse in evidenza.

Per quanto concerne la tipologia delle “contorniature” o “cerchiature” della figura facciale con ampia cornice, occorre ricordare che Paolo Barbo fu grande amante della medaglistica antica e, alla maniera degli imperatori romani (che talvolta facevano coniare la loro immagine quale appariva nelle monete con cornice per farne medaglioni celebrativi), volle egli stesso praticare questo “genere”.

Per quanto concerne la problematica delle monete contorniate si veda anche la “moneta Sesterzio contorniato”; Zecca di Roma; 169 d.C., di mia proprietà che potrebbe essere effettivamente romana ovvero opera rinascimentale.

M3.3.15.

Bronzo fuso; patina scura.

Ø 53,54 mm.; 71,16 gr.,inedita.

M3.3.16.1. – M3.3.16.2.

Paolo veneto papa II / Stemma papale, Has aedes condidit…

Medaglia contorniata.

Cristoforo di Geremia, Roma, 1465.

Queste medaglie costituiscono la versione “contorniata” della M3.33.(per quanto riguarda il fronte) e della M3.8. (per quanto riguarda il retro).

F.  Il fronte di questa serie è analogo a quello delle tre serie precedenti; il volto di Pietro Barbo pontefice con il nome di Paolo II è rappresentato di profilo volto a sx entro una cornice perlinata; il papa manifesta una vasta tonsura; tutto attorno si legge la scritta PAVLVS · VENETVS · PAPA · II·.

R. Ruotato di 180° il retro reca lo stemma papale e cornice a perline; tutto attorno la scritta HAS AEDES CONDIDIT ANNO CHRISTI MCCCCLXV.

M3.3.16.1.

Bronzo fuso; patina marrone rossiccio naturale.

Ø 51,58 mm.; 63,42 gr., inedita.

M3.3.16.2.

Bronzo fuso; patina marrone scura lucida.

Ø 51,00 mm.; 59,83 gr., inedita.

P1.101. – P1.103.

Crocifissione con popolo e armigeri.

(Crocifissione).

Placchette.

Galeazzo Mondella detto il Moderno, Padova, inizio del XVI secolo.

P1.101.

Le molte placchette di questa tipologia lasciano credere che essa sia stata piuttosto popolare; essa è conosciuta in molteplici lievi varianti.

Al centro, in alto, spicca la Croce sulla quale Cristo sta morendo; al suo fianco, si notano le due croci sulle quali si contorcono i due ladroni. La scena è letteralmente costipata da un gran numero di personaggi fra cui molti soldati romani, di cui uno a cavallo. A sx, in piedi, si nota San Giovanni a mani giunte che si dispera; a sx, a terra, la Madonna svenuta è consolata dalle Pie Donne fra le quali Maddalena; al centro, una donna abbraccia la Croce e, in primo piano, un bambino nudo sguscia fra le gambe della folla; sulla dx, in piedi, tre uomini (di cui uno barbuto e uno nudo di spalle) recano uno scudo.

P1.101.

Crocifissione con popolo e armigeri (esemplare a).

Bronzo fuso con patina marrone.

78,2 x 115,5 mm. 179,68 gr., inedita.

P1.102.

Crocifissione con popolo e armigeri (esemplare b; dorato).

Bronzo fuso; frontalmente dorata, lievemente incusa.

76,3 x 112,5 mm.; 152,79 gr.

Mentre lo scudo di sx è ornato con una gorgona in rilievo come nelle altre placchette, gli altri due sono trattati con un singolare tratteggio incrociato (ritengo per valorizzare la doratura).

P1.103.

Crocifissione con popolo e armigeri (esemplare c; falso).

Bronzo fuso; esemplare falso.

76,5 x 111,4 mm.; 193,47 gr., inedita.

La mancanza di dettaglio (che, invece, è prerogativa delle opere del Moderno) e l’apparente consunzione generalizzata, lasciano ritenere che si tratti di una esecuzione tardiva, basata su un esemplare a sua volta consunto e, comunque, volutamente abraso per fornire la sensazione di un oggetto antico.

P4.24.

Atilla flagellum Dei.

Galvano dell’originale in rame argentato.

Anonimo artigiano, Italia settentrionale, XIX secolo.

Galvano in rame argentato.

Ø 100,00 mm.; 30,15 gr., inedita.

La galvano della medaglia originale è costituita da una sottile lamina di rame ottenuta per galvanoplastica da esemplare fuso di elevata qualità. Il retro evidenzia le tracce di un precedente fermaglio saldato in due punti.

P6.2.-P6.3.

Cristo e Madonna.

Matrice di placchette in corno.

Bottega sconosciuta, Roma (?), inizio del XVIII secolo.

Cristo e Madonna.

Modello in cera per fondere placchette.

Federico Vianello, Firenze, ultimi anni del XX secolo.

P6.2.

Cristo e Madonna.

Corno di bue e ferro; i diversi fori, di cui alcuni contengono spinotti in ferro, servivano come “riferimento” a un soprastante coperchio.

121,64 x 74,71 mm.; 54,10 gr., inedita.

Questa matrice è stata usata per ottenere le cere con le quali fondere (a cera persa) placchette semplici e/o bifacciali di Cristo e della Madonna.

La matrice è costituita da una lastra di corno traslucido (verosimilmente reso pastoso “a caldo” per immersione in acqua bollente); su di essa sono realizzati due busti della Madonna e di Gesu (rispettivamente volti a dx e a sx).

Le matrici, opportunamente lubrificate con un distaccante, consentivano di realizzare “cere” da utilizzare per fondere placchette che, ovviamente, sarebbero apparse ribaltate (Madonna volta a sx e Cristo volto a dx); le immagini fornite da queste matrici hanno avuto notevole diffusione: esse si trovano unite fronte e retro in placchette bifacciali o singole monofacciali.

P6.3.

Cristo e Madonna (esemplare a; color rosa).

Foglio di cera.

94 x 71,34 mm.; 9,00gr.

La cera è stata realizzata dall’orafo fiorentino Federico Vianello con bottega in via San Zanobi a Firenze.

P1.205.-P1.206.

Cristo.

Placchetta monofacciale.

Madonna.

Placchette monofacciale.

Federico Vianello, Firenze, riedizione della fine del XX secolo da matrice del XVIII secolo.

P1.205                                      P1.206

Due esemplari monofacciali della edizione tarda; coppie di esemplari praticamente identici.

Bronzo fuso a cera persa, patina rossiccia.

38,5/39,2 x 44,3/46,7 mm, inedite.

Le fusioni sono state realizzate dall’orafo fiorentino Federico Vianello con bottega in via San Zanobi a Firenze.

XX secolo.

P1.205.

Cristo.

In questa placchetta ottagonale monofacciale, Cristo è rappresentato a mezzo busto di profilo, porta lunghi capelli ondulati ed è volto a dx; un’aureola circonda il suo volto; tutto attorno la scritta QUI SEQVITUR ME NON AMBVLAT IN TENEBRIS.

P1.206.

Madonna.

In questa placchetta ottagonale monofacciale, la Vergine velata rappresentata a mezzo busto di profilo volta a sx; un’aureola circonda il suo volto; tutto attorno la scritta TV SOLA SVPERGRESSA ES VNIVERSAS.

P1.20 – P1.21.

Giudizio di Paride:

esempio a, dorato (Courajod);

esemplare b.

Placchette tonde.

Giovanni di Fondulino Fonduli da Crema (Maestro IO.F.F.), Mantova, metà del XV secolo.

P1.20.

Esemplare a.

Bronzo chiaro con tracce di doratura (il fondo è lievemente puntinato per facilitare la doratura); lievemente convessa; foro in alto; retro incuso.

Sul retro un’etichetta reca le scritte n. 27/M Courajod e un’altra, più recente, reca il n. 897.

Ø 55,70 mm.; 39,39 gr., inedita.

P1.21.

Esemplare b.

Bronzo rossiccio; retro incuso.

Ø 54,51 mm.; 35,76 gr., inedita.

Le placchette rappresentano il cosiddetto “Giudizio di Paride”: a sx, sotto un albero brullo, un giovane uomo nudo di profilo e di fronte sta seduto su una pietra; egli tiene un flauto nella mano sx e porge un pomo d’oro alla donna semivestita (Venere) che sta di fronte a lui con la mano dx aperta; i cui fianchi sono avvolti da un velo mentre la testa è munita di ali. Dietro di lei, completamente nuda di profilo verso sx, si vede un’altra donna (Giunone) e un’altra ancora, nuda di tre quarti (Minerva), tiene nella mano dx un oggetto non decifrabile e con la mano sx stringe una lancia e uno scudo. Sopra di loro vola Cupido con la sua freccia.

Sotto l’esergo la scritta IO.F.F.

P1.75. – 1.76.

Cristo appare agli apostoli.

Placchette.

Lautizio da Perugia o artista della sua cerchia(?), Scuola milanese (?), XVI secolo (circa 1520).

P1.76.

Sotto un arco rettangolare Cristo, in piedi e benedicente, appare agli apostoli riuniti; cinque sono a dx e altrettanti a sx; egli porta nella mano sx un’esilissima croce, simbolo del suo martirio.

P1.75.

Cristo appare agli apostoli (esemplare a).

Bronzo fuso con patina bruno chiara; retro liscio.

68,00 x 94,7 mm.; 118,35 gr., tre fori in alto, inedita.

P1.76.

Cristo appare agli apostoli (esemplare b con tracce di argentatura).

Bronzo fuso con tracce di argentatura, spatinata; retro liscio.

69,9 x 100,02 mm.; 90,21 gr., due fori in basso, inedita.

Musiche francesi rococò nella Sala del Cenacolo

del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.

Nella Sala del Cenacolo (l’antico refettorio del monastero olivetano di San Vittore al Corpo), all’interno del Museo della Scienza e della Tecnologia, si è tenuto un primo concerto della serie che, per l’anno 2021, l’Accademia A.MA.MI ha voluto dedicare alla musica vocale e strumentale del Barocco europeo col titolo “Europa concertante”.

L’Associazione A.MA.MI. (simpatico acronimo di Accademia di Musica Antica di Milano) è la meritoria iniziativa meneghina nata nel 2013 per volontá del professor Giovanni Iudica (l’illustre giurista molto conosciuto anche per essere un curioso e acuto musicologo); essa si ripropone almeno tre fondamentali obiettivi culturali.

  • La riscoperta e la valorizzazione del patrimonio culturale internazionale sviluppatosi fra il XV e il XVII secolo: tale obiettivo si fonda sull’esecuzione di brillanti musicisti italiani e stranieri;
  • lo sviluppo di iniziative culturali di vario genere (come la realizzazione di convegni, la presentazione di interesse musicologico, l’istituzione di borse di studio, ecc.);
  • e, concetto insolito ma davvero intelligente, la dimostrazione che la musica odierna e che si svilupperá nei prossimi tempi, affonda le sue essenziali radici in un fecondo a articolato passato peraltro poco conosciuto dai piú.

Il concerto del 10 ottobre è stato dedicato alla musica strumentale francese da Lully a Rameau: il trio “Les Timbres” (costituito dalla violinista giapponese Yoko Kawakubo, dalla violista da gamba francese Myriam Rignol e dal clavicembalista belga Julien Wolfs) ha mirabilmente eseguito brani di Jean Marie Leclair, Jean Baptiste Lully, Marin Marais, François Couperin e Jean Philippe Rameau. Si è trattato di un piacevolissimo excursus lungo la musica cortigiana della prima metá del 1700, che ci racconta i fasti, i riti e le gioiose consuetudini della Corte dei Re di Francia: chiudendo gli occhi, l’ascolto di quei brani mi ha indotto quasi a immaginare cortigiane e cicisbei intrecciare passi di danza entro ornati ambienti rococò e gradevoli giardini con verdi viali e zampillanti giochi d’acqua.

Il 27 ottobre e il 19 novembre prossimi, rispettivamente presso la Sala delle Colonne e presso la Sala del Cenacolo del Museo della Scienza, si terranno altri due interessantissimi concerti organizzati da A.MA.MI.: “Kunst der Fuga” BWB 1080 di Johann Sebastian Bach nell’interpretazione dell’Accademia Strumentale Italiana e brani di Francisco J. García Fayer e José Joaquim dos Santos interpretati dal complesso di Divino Sospiro.

Mi preme evidenziare che l’accesso ai concerti promossi da A.MA.MI. è gratuito ma è necessaria la prenotazione, fino a esaurimento posti, presso il numero 02-76015728: evidentemente la partecipazione è soggetta alle regole anti COVID.

Didascalie delle foto.

01.

I musicisti sullo sfondo dell’affresco “Le nozze di Cana” nel refettorio olivetano presso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.

02

Il trio “Les Timbres”.

03.

La violinista giapponese Yoko Kawakubo.

04.

La violista da gamba francese Myriam Rignol.

05.

Il clavicembalista belga Julien Wolfs.

06.

Programma del concerto del 10 ottobre 2021.

07.

I prossimi concerti A.MA.MI.

Curiose medaglie di cultura protestante.

di Antonio Carminati

Il volume (attualmente in fase di stampa), curato dal nostro Vice-presidente prof. arch. Alessandro Ubertazzi, è edito dal Centro Studi Valle Imagna per i tipi della collana “Scienze, arti e culture” (f.to 230 x 220 mm, stampa tradizionale, brossura, pp. 106, a colori).

Curiose medaglie sarcastiche risalenti alla prima metá del 1500 e concernenti le diatribe iniziali fra cristiani (rispettivamente fedeli alla Chiesa di Roma e seguaci della dottrina protestante) saranno esposte a Lugano in seno alla manifestazione WopArt 2021.

Si tratta di un piccolo ma significativo nucleo di rari documenti che sono stati prodotti in vari luoghi del Centro Europa con lo scopo di deridere, e perció anche di combattere con i “mezzi propagandistici” di allora, i comportamenti della Chiesa Romana come apparivano agli occhi del mondo germanico sensibilizzato dalle riflessioni avanzate da Lutero con le sue famose tesi.

In un contesto molto diverso e progredito come il nostro, oggi quelle medaglie rappresentano un documento importante della storia della cultura europea, concernente un periodo essenziale ma ancora non abbstanza conosciuto dai piú.

Realizzate in argento, bronzo, ottone e perfino piombo, le medaglie sarcastiche presentate testimoniano interessanti aspetti del proselitismo religioso di allora; esse sono state raccolte negli anni dall’architetto Alessandro Ubertazzi che ne ha curato un catalogo piuttoso approfondito con contributi scientifici di monsignor Franco Buzzi (che è stato Prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano e ora è membro del Collegio dei Dottori di quella Istituzione) e del dottor Paolo de Petris (ex ministro della Chiesa Riformata del Ticino e attualmente docente di Teologia Storica presso l’IFED di Padova).

Alessandro Ubertazzi cosí conlclude il suo testo introduttivo:

«Personalmente ritengo che la presentazione del corpus di esemplari, che ho attinto soprattutto dal mercato antiquario e dal sistema delle aste, costituisca di fatto l’occasione per condividere argomenti che interessano i collezionisti e soprattutto per documentare un aspetto curioso e significativo della storia della cultura europea. In questo senso, se è vero che, a Roma, il Rinascimento regalava al mondo intero i suoi insuperabili capolavori artistici deviando peró spesso da una dimensione religiosa universalmente condivisibile, nel centro Europa si ponevano le basi per una rinnovata etica sociale che induce il piú alto rappresentante della Chiesa cattolica a promulgare oggi il fondamentale testo sulle oggettive problematiche dell’ambiente umano.

In realtà, il nostro contesto progredisce sistematicamente nella dialettica anche beffarda delle vicende quotidiane e, di fronte al rischio di una incombente ondata di oscurantismo, la cristianità, ancora oggi troppo suddivisa, dovrá ricompattarsi proprio sull’essenza dei suoi presupposti evangelici fondamentali; in tal senso, non mi stupiró se, un giorno relativamente vicino, lo stesso Martin Lutero verrá considerato anche dai cattolici alla stregua dei sinceri e illuminati dottori della Chiesa».

Tale mostra si inaugurerá il 18 novembre prossimo e durerá fino al 21.

P.S.

Il libro, disponibile dalla metà del mese di novembre 2021, può essere prenotato sin d’ora presso il Centro Studi Valle Imagna.

Adorazione e Compianto di origine italiano-iberica.di Mike RiddickVersione italiana a cura di Alessandro Ubertazzi.Ottobre 2021.

Una coppia di rilievi di medie dimensioni raffiguranti rispettivamente l’“Adorazione dei Pastori” (fig. 01) e un “Compianto” (“Lamento”) (fig. 02) sono conosciuti attraverso una quantità innumerevole di esemplari in collezioni private e pubbliche. Alcune particolarità distinguono tali esemplari per il trattamento dei loro drappeggi, le textures e le piccole aggiunte o sottrazioni di dettagli.
Piú specificamente, gli esemplari dell’“Adorazione” presentano varie date incise diretta-mente nella matrice mentre le varianti di entrambi i rilievi sono state prodotte nel corso dei secoli in una discreta varietà di materiali (1) e utilizzando diversi metodi di fabbrica-zione (2).
Le piú belle versioni conosciute dell’“Adorazione” presentano un’iscrizione (PARM INVENT), lungo la trabeazione delle rovine architettoniche raffigurate nella scena men-tre un capitello rotto, appoggiato a terra sul margine inferiore, riporta la data 1561.
Le prove del successo di questo rilievo e della sua continua riproduzione sono dimostra-te da repliche successive, probabilmente contemporanee, con le date 1580 (3), 1586 (4) e 1600 (5). Altri esemplari datati, con un’iscrizione alternativa lungo la trabeazione, GLORIA IN EXCELSIS DEO, riportano gli anni 1587 (6), 1589 (7) e 1590 (8).
Per la datazione del rilievo del “Compianto”, un termine ante quem è assicurato da un esemplare fuso in bronzo conservato al Museo Civico di Ferrara: questo presenta il tim-bro della fonderia veneziana di Santo o Joseph de Levis ed è datato 1577 (9).
Prospero Rizzini catalogò per la prima volta il rilievo dell’“Adorazione” conservato pres-so i Musei Civici di Brescia, suggerendo che la composizione fosse ispirata a un dipinto del Parmigianino: si trattava di un’ipotesi plausibile basata sulla trabeazione iscritta che recita infatti PARM[IGIANINO] INVENTORE. Andrea Moschetti seguì quel sug-gerimento, ritenendo invece che derivasse da un disegno non identificato di quel maestro (11). Nonostante la morte del Parmigianino nel 1540, altri studiosi mantennero queste nozioni in considerazione della persistenza dell’influenza di quell’artista (12).
Poco dopo, un altro possibile candidato, l’orafo e medaglista parmense Gian Federico Bonzagna fu proposto come possibile autore identificato dalla scritta PARM INVENT (13). Bonzagna firmava infatti le sue medaglie con variabili abbreviazioni di IOANNES FEDERICUS PARMENSIS. Tale suggerimento raccolse un’accettazione ancora più diffu-sa della associazione col Parmigianino ed egli è oggi ancora frequentemente indicato come l’inventore dei rilievi, nonostante Francesco Rossi abbia respinto l’idea (commentando la “totale assenza di connessioni con il lavoro noto di Bonzagna”) (14) e nonostante l’osservazione di Anthony Geber secondo la quale Bonzagna ha sempre incluso il suo no-me nelle sue firme (15) (assente sul rilievo dell’“Adorazione”). Più recentemente, Charles Avery ha osservato che i rovesci medaglistici di Bonzagna non si riferiscono in modo sod-disfacente ai due rilievi (16) mentre Doug Lewis ha respinto la loro associazione con Bon-zagna, commentando una pace che raffigura un “Compianto” attribuita Bonzagna, il cui disegno non ha nulla in comune con il rilievo del “Compianto” qui discusso (17).
Nei confronti con i suddetti rilievi, altri studiosi hanno adottato un approccio più cauto; Wilhelm von Bode li ha semplicemente descritti come opere italiane del XVI secolo (18). Ernst Bange (19) e Max Bernhart li hanno considerati probabilmente veneziani (20) e altri hanno designato la coppia come emiliana (circa 1550-75) (21) o forse roma-na (22).3
La recente attribuzione di Lewis dei due rilievi a Pellegrino Tibaldi rimane inedita (23) ma è stata riconosciuta e accettata da Avery (24). Lewis ha messo in relazione l’attività di Tibaldi a Bologna (dove il Parmigianino fu attivo tra il 1527-31 e dove lo stampatore Giulio Bonasone riprodusse i suoi disegni) come fattore chiave per la genesi di quei ri-lievi. Sfortunatamente, nessuna opera conosciuta del Parmigianino è analoga ad essi, salvo l’interessante osservazione di Lewis secondo la quale l’arco trionfale romano sul-lo sfondo del suo pannello concernente la “Madonna con San Zaccaria” corrisponde all’ambiente architettonico dell’“Adorazione”. La maggior parte degli altri confronti fat-ti da Lewis sono forse troppo superficiali e si basano di nuovo sul suggerimento che un disegno perduto o un potenziale gruppo di opere ascrivibili al Parmigianino potrebbe essere servito come fonte per i disegni dell’“Adorazione” e del “Compianto”.
Mentre il suggerimento di Tibaldi è fresco e audace, questo Autore non ha notizie circa il fatto che abbia lavorato nella scultura in metallo e, d’altro canto, i suoi rilievi in pietra non hanno nulla in comune con il carattere stilistico di quelli dell’“Adorazione e del “Compianto”.
Piuttosto, i rilievi appartengono in modo più convincente all’ambiente artistico delle in-fluenze iberiche nelle città di Napoli e Milano governate dalla Spagna. Come cercheró di mostrare, i motivi presentati sui due rilievi non si basano su fonti emiliane ma piutto-sto su altre che fondono in modo molto evidente modalità iberiche e italiane.
Peraltro, nel condurre il primo censimento di entrambi i rilievi, Lewis ha osservato che una quantità di essi fu probabilmente fusa in Spagna (25).
L’occupazione spagnola di Napoli e Milano, dove i governatori partecipavano attiva-mente alla vita culturale di quelle città (26) e dove, per esempio, il commercio tra la Ca-talogna e la cittá partenopea era particolarmente sviluppato (27), produsse un linguaggio visivo in cui convergevano influenze iberiche e italiane. A Napoli, il centro di quella influenza è evidente nei progetti in corso presso la “Santissima Annunziata Maggiore” (fig. 03) mentre a Milano la osserviamo in certe caratteristiche del Duomo così come nel commercio di armi (fig. 04) che [le botteghe di quella cittá] frequentemente esporta-vano verso acquirentii asburgici e verso altre corti europee (28).
Il linguaggio visivo di questa interazione culturale è più evidente nell’impatto che ebbe sugli artisti pendolari tra la Spagna e le suddette città e che caddero sotto l’incantesimo indelebile dell’influenza generale in Italia di Michelangelo così come di Donatello, Raf-faello e Leonardo. Vale la pena notare il commento di Adalbert von Lanna (o del suo ca-talogatore) circa l’influenza di Michelangelo sul rilievo del “Compianto” (29) in partico-lare, osserviamo un servitore rappresentato in quel rilievo che si afferra il viso, prendendo spunto dal “Geremia” di Michelangelo negli affreschi della Cappella Sistina (fig. 05).
Per quanto riguarda la scultura, un primo esempio di fusione iberico-italiana si osserva nel lavoro di Diego de Silóe (il cui padre aveva lavorato in Italia) e soprattutto di Barto-lomé Ordóñez, entrambi nativi di Burgos che viaggiarono in Italia e si stabilirono a Na-poli.
Un sorprendente parallelismo con il rilievo del “Compianto” è evidenziato dal pannello devozionale in noce (fig. 06) intagliato con la tecnica dello stiacciato sperimentata da Donatello, riscontrato per primo da Riccardo Naldi (30). Il pannello fu forse realizzato per contribuire a ottenere la commessa per la ralizzazione degli stalli del coro della Cat-tedrale di Barcellona dove quel motivo è nuovamente ripreso (fig. 07). La raffigurazione di Cristo discende da Firenze dove si presume che Ordóñez sia stato attivo, ispirato dalla 4
“Deposizione” dei pulpiti di San Lorenzo di Donatello o dal dipinto di Fra Bartolomeo con analogo soggetto.
L’influenza incrociata del disegno è di nuovo evidente tra Barcellona e Napoli attraverso la sua ricorrenza in una “Deposizione” in marmo che Ordóñez realizzó per la Tomba di Bonifacio nella Chiesa dei Santi Severino e Sossio e in altre opere come un rilievo sull’altare della Cappella Vicariis del Duomo di Salerno: si pensa che questo sia stato e-seguito da uno scultore napoletano sconosciuto durante gli anni 1520-30 (fig. 08). La “Deposizione” in marmo di Ordóñez presenta temi evidenti in entrambi i rilievi della “A-dorazione” e del “Compianto”: in particolare si notino il volto della Vergine in lutto sulla sinistra, la configurazione del Cristo deposto e la figura inclinata verso l’interno sulla de-stra, la cui schiena e il drappeggio sono impliciti nella figura più a destra della “Adora-zione” (fig. 09).
Un’influenza precoce sul rilievo dell’“Adorazione” si nota di nuovo nel pannello di marmo dello stesso soggetto che Ordóñez realizzò per la cappella di Caracciolo di Vico nella chie-sa di San Giovanni a Carbonara a Napoli: qui, la figura accovacciata nell’angolo in basso a sinistra è frutto di quella influenza, anche se “prende in prestito” la testa girata dell’assis-tente più a destra del rilievo di marmo. Un portico, coronato da più cornici, potrebbero pre-figurare la “Adorazione” del 1561, insieme al muro di mattoni visibile alla destra del rilie-vo (figg. 09 e 10).
L’essenza dello stile iberico-italiano è rappresentata a Napoli da altri scultori come Gio-vanni da Nola, la cui tomba per Ramón de Cardona (realizzata nel 1522-25) fu traspor-tata frammentariamente da Napoli alla Chiesa di Bellpuig a Lleida, in Spagna o dai membri della sua cerchia responsabili di opere come un’“Annunciazione della Vergine alla SS. Annunziata” (fig. 11) (31) e, più in generale, dall’influenza di Alonso Berrugue-te la cui adozione di questi motivi può suggerire un possibile passaggio attraverso Na-poli, come è stato spesso ipotizzato (32).
Certamente, altre influenze appaiono nell’opera degli allievi e collaboratori di Alonso (33), in particolare Francisco Giralte, allievo di Berruguete tra il 1532-35 e poi capo scultore nella sua bottega tra il 1539-42, aiutando ad eseguire gli stalli lignei del coro della Cattedrale di Toledo (34).
Lo stile di Giralte si distingue in modo esplicito da quello del suo maestro, essendo di un carattere piú temperato particolarmente adatto alla nostra coppia di rilievi che rap-presentano l’“Adorazione” e il “Compianto”. Il suo pannello che rappresenta “Giobbe sul monte Dunghill oltraggiato dalla moglie” (35) (fig. 12) mostra lo stesso modello di Cristo nel “Compianto” sostituito a Giobbe la cui fisionomia e postura sono infatti para-gonabili con quello, mentre il gesto di sua moglie ricorda i personaggi protesi verso l’interno raffigurati su entrambi i suddetti rilievi. Possiamo anche richiamare l’attenzione sulle idiosincrasie, specialmente dei panneggi, osservate in altri suoi pan-nelli dedicati al “Compianto” (Museo Nacional de Escultura, Valladolid), alla “Sacra Famiglia”, all’“Annunciazione” (fig. 13) e ad “Anna Selbdritt” (Mullany Fine Art) che riconducono a una simile essenza stilistica.
Di simile impostazione è un piccolo bassorilievo di Manuel Álvarez che rappresenta la “Sepoltura di Cristo”, scolpito in legno nel 1550-55 circa (36), chiaramente ispirato al rilievo di Ordóñez del soggetto con uno stile italiano debitore anche dell’influenza di Berruguete. Si può anche notare una corrispondenza superficiale tra la figura del Cristo 5
bambino dell’“Adorazione” e l’“Adorazione” in marmo di Álvarez al Museo Marés di Barcellona (fig. 14).
Come Giralte, Álvarez fu giovane assistente di Berruguete, impiegato anche durante la realizzazione degli stalli del coro della Cattedrale di Toledo. La sua vicinanza artistica a Giralte è testimoniata anche dal suo successivo matrimonio con la sorella di Giralte.
La continua presenza di questi motivi tra l’Italia e la Spagna, fino agli anni 1550, è un evidente catalizzatore della loro comparsa sui nostri due rilievi presumibilmente realiz-zati nel 1561. Mentre è improbabile che Giralte abbia personalmente modellato le plac-che a bassorilievo del “Compianto” e dell’“Adorazione” (37) egli potrebbe aver avuto una certa influenza o potrebbe essere stato responsabile di qualche fase della loro con-cezione. Sebbene sia principalmente conosciuto come scultore, egli fu anche disegnato-re, anche se suoi disegni non sono stati ancora identificati (38). Documenti relativi alla causa contro il suo scultore rivale, Juan de Juni, fanno ripetutamente riferimento ai suoi numerosi disegni per pittori, scultori e argentieri (39) collegandolo così come possibile candidato nell’aver fornito disegni da “trasferire” in metallo. I documenti collocano Gi-ralte a Madrid durante il 1561 (40), l’anno in cui Filippo II vi stabilì permanentemente la sua corte: in quel periodo, la circostanza deve aver favorito la diffusione di idee e di-segni nei territori detenuti dalla Spagna attraverso il Mediterraneo.
Le dimensioni dell’“Adorazione” e del “Compianto” suggeriscono un possibile uso su tabernacoli o altari domestici. Notevole è la sottigliezza del loro rilievo la cui modesta altezza contiene composizioni forti mentre la notevole raffinatezza della superficie ag-giunge virtuosismo al loro carattere piuttosto che una delicatezza di modellazione. Que-sti oggetti sono particolarmente evidenti nelle diverse versioni del rilievo, fuse in modo nitido e notevolmente ornate, che presentano un’argentatura parziale per i toni della carne o l’aggiunta di piccole borchie d’argento per arricchire il disegno dei tessuti o le caratteristiche architettoniche. La scala unica di queste placche, insieme al tipo di rilievo e alla ornamentazione, colloca la loro esecuzione esclusivamente presso agli armaioli in acciaio e ferro della Milano occupata dagli spagnoli, la cui produzione di rilievi è un tema molto poco studiato nella categoria delle placchette.
Mentre i gruppi figurativi primari presenti sui rilievi hanno un’evidente origine iberico-italiana, i loro sfondi sono certamente del tipo osservato nella produzione di armature a Milano durante il terzo quarto del XVI secolo. Gli impressionanti e complessi motivi presenti sui drappeggi dei protagonisti non solo imitano la tradizione estofado (40bis) della Spagna ma incorporano anche esotici motivi moreschi usati dagli orafi e dai dama-schinatori attivi nella produzione milanese di armi. In particolare, possiamo osservare l’applicazione [secondo quel procedimento] di piccole borchie d’argento come quelle presenti su una lancia da caccia riccamente ornata destinata all’arciduca Ferdinando II e prodotta da Giovanni Battista Panzeri nel 1560 (fig. 15) (41).
Lo stile e la scarsa profondità delle placche dell’“Adorazione” e del “Compianto” sono anche congruenti con i rilievi in acciaio e ferro sbalzati e accuratamente martellati in repoussé dai maestri armaioli milanesi, suggerendo che i modelli originali di quei rilievi fossero probabilmente stampi in acciaio piuttosto che calchi in gesso derivati da modelli in cera o argilla. Tuttavia, la loro probabile origine in un’officina d’armi milanese (dove si riunivano orafi, fonditori, damaschinatori e altri artigiani specializzati), li identifica ancora come una produzione “eccentrica” rispetto a quella preminente di scudi, spade, armature e scene di mitologia e gesta eroiche di Marco Curzio. Questa ultima conside-6
razione potrebbe forse chiarire il motivo per cui Milano sia stata trascurata come possi-bile luogo di origine di quei rilievi pendant che raffigurano la nascita e la morte di Cri-sto.
A restringere la loro origine sono due botteghe milanesi specializzate in armature che, uniche, sono note per aver prodotto e commercializzato oggetti al di là di quelli caratte-ristici dell’industria delle armi, come scrivanie in acciaio damascato, armadi e altri vari oggetti di lusso e, più raramente, oggetti di natura devozionale, come paci e altari da vi-aggio (42). Queste due botteghe furono rispettivamente gestite da Panzeri, come già det-to, e da Giovanni Antonio Polacini (43).
Mentre della produzione e dello stile di Panzeri si sa molto di più, il lavoro superstite di Polacini è poco conosciuto. Polacini, chiamato anche Romerio o Romè, si formò in gio-vane età sotto la guida di Giovan Ambrogio Vimodrone tra il 1540-44, educato nell’“arte di adornare armature e spade” (44). Nel 1545 Polacini assunse il damaschina-tore Marco Antonio Fava, che avrebbe servito a intermittenza sia Panzeri che Polacini durante la loro attivitá (45).
L’unica opera che si sa con certezza essere opera di Polacini-Fava sono tre grandi rilievi in rilievo per un tabernacolo raffiguranti scene dell’“Ultima Cena”, della “Cena in Em-maus” e del “Miracolo dell’Eucarestia” (che, secondo la leggenda, avvenne nella chiesa parrocchiale di Sant’Osvaldo a Seefeld in Austria) (fig. 16). Il tabernacolo per quella chiesa fu commissionato dall’arciduca Ferdinando II del Tirolo al prezzo di 2000 fiorini, pagati nel 1576 (46). Nel 1862, i rilievi si trovavano ancora nella chiesa ma il tabernacolo deve essere stato smontato e alcune parti sono state disperse; in un primo momento è sta-
to riferito che si trattava delle opere di un fabbro di Innsbruck e poi esse sono entrate nel mercato dell’antiquariato e la loro collocazione è rimasta finora sconosciuta (47).
Specifiche “idiosincrasie” osservate su questi tre rilievi possono suggerire una relazione con i rilievi dell’“Adorazione e del “Compianto”. La prima è la loro apparente dipen-denza da modelli (in questo caso di Guadenzio Ferrari di Milano), come notato da Silvio Leydi (48). La dipendenza di Polacini dai modelli è documentata anche nella prepara-zione di un tavolo realizzato per il Duca d’Alba nel 1559, con rilievi ovali contenenti motivi e figure forniti da Leone Leoni (49). La portata della bottega di Polacini è anche dimostrata dal suo impiego di emissari per facilitare i suoi affari in varie corti d’Europa, come l’assunzione di Battista de Angelis a Vienna che, durante i primi anni 1560, gestì i suoi affari lí intrapresi con gli Asburgo (50).
Tuttavia, sono le qualità più fini e distintive dell’abilità di Polacini come incisore e gof-fratore di acciaio che collegano in modo più credibile i rilievi dell’“Adorazione” e del “Compianto” con quelli destinati a Seefeld. Di primo piano sono i disegni stravaganti e diversamente giustapposti dei suoi drappeggi e gli sfondi, che conferiscono una qualche vibrazione alle composizioni. Anche la modellazione dei volti dei personaggi può essere messa in relazione con le orbite degli occhi resi lisci e racchiusi da palpebre a mandorla.
I capelli, le barbe e i baffi sono bilanciati con brevi tratti ondulati, profondamente incisi nella superficie del rilievo per delinearne la trama. Il padiglione delle orecchie è model-lato più spesso di quello naturale e le mani presentano postura ed eleganza comparabili (fig. 17). Il cane situato alla base dell’“Ultima Cena” riecheggia la pecora tenuta da uno dei personaggi che partecipano all’“Adorazione”.
Un particolare parallelo si osserva nella preferenza stilistica per la resa delle nuvole, mentre le forme architettoniche abbozzate sullo sfondo sono piuttosto comparabili; in 7
particolare, la cupola insolitamente fantasiosa al centro del pannello della “Ultima Ce-na” fa eco a quella presente nell’“Adorazione”, probabilmente ispirata dai pannelli in legno dorato della SS. Annunziata a Napoli, eseguiti negli anni 1550 (fig. 18) (51). Più specificamente, l’insolito globo posto in cima alla sua guglia compare di nuovo sullo sfondo di un edificio lungo il lato sinistro dell’“Adorazione”; si tratta di una caratteristi-ca peculiare che si osserva raramente in altre architetture rappresentate nei rilievi di produzione milanese. Infine, l’importanza generale attribuita all’architettura nei suoi rilievi è da equiparare a quella dell’“Adorazione”.
Nonostante le corrispondenze tra i rilievi di Seefeld e il pendant costituito dalla “Adora-zione” e dal “Compianto” sussiste comunque l’eventualitá che altri artigiani artisti siano stati coinvolti come mercenari nella bottega di Polacini come, ad esempio, Giovan An-tonio Appiani (che Fava aveva autonomamente assunto nel 1561 come sbalzatore di ri-lievi) (52), per poi unirsi a Fava accanto a Polacini nel 1563 (53).
L’iscrizione PARM INVENT (che, nonostante tutte le corrispondenze tracciate in que-sto articolo, non fornisce ancora una spiegazione sicura del suo significato) rimane an-cora piuttosto misteriosa anche se il suo inserimento nella scena ricorda l’abitudine de-gli armaioli di nascondere firme e date nel loro lavoro.
Né si conosce un motivo per la sua creazione, sebbene l’influenza del controriformista Carlo Borromeo di Milano e la presenza di un papa milanese nel 1561 possano suggeri-re un’atmosfera di mecenatismo legata ai suddetti rilievi (54).
La continua trasfuzione di idee tra la Spagna e i suoi territori periferici in Italia spiega anche una immediata diffusione di questi rilievi milanesi in Spagna. Lewis suggerisce che esemplari del rilievo con l’iscrizione GLORIA IN EXCELSIS DEO fossero proba-bilmente un prodotto delle fonderie spagnole durante gli anni 1580 (55). Certamente, nel 1570 l’“Adorazione” è già presente in una sua riproduzione sull’altare maggiore del-la chiesa parrocchiale di Urroz in Navarra, eseguita da Miguel de Espinal (fig. 19) (56).
Occorre ricordare, infine, una versione molto più tarda dell’“Adorazione”, conosciuta attraverso esemplari in argento stampato con un bordo aggiunto di perline e losanghe e talvolta con una facciata di mattoni, di altezza variabile, lungo il registro inferiore. Que-ste versioni erano più frequentemente montate su un supporto di legno, ma alcuni esem-plari sono stati preparati in silhouette per essere montati su pietre preziose. A causa del carattere moderno di questi esempi, Avery aveva suggerito dubitativemente che l’intera produzione di rilievi dell’“Adorazione” fosse il pastiche di un falsario di fine Ottocento e inizio Novecento, un certo Luigi Francesco Parmeggiani (57); tuttavia, questa teoria è stata successivamente da lui stesso ridimensionata mentre altri hanno evidenziato origi-ni chiaramente precedenti. Per esempio, Lewis nota un esemplare in argento stampato conservato al Museo Civico di Brescia che fu consegnato nel 1828 da Gabriele Scovoli mentre un altro esemplare nello stesso museo reca sul retro la data del 1804. Lewis nota anche un esemplare al Castello Sforzesco il cui supporto in legno mostra la data del 1792 (58). Infine, Attilio Troncavini, che per primo ha contestato l’ipotesi di Avery, ha segnalato un tabernacolo nella Chiesa di Santa Maria del Carmine a Milano, con un e-semplare del rilievo in argento stampato, datato 1808 (59).8
Note.
1.
Sono state identificate copie in bronzo, piombo, argento martellato, legno, avorio, mar-mo, pelle stampata e cartapesta, così come copie moderne dipinte (database privato di esempi). 2.
La maggior parte degli esemplari sono fusi in bronzo, fin dall’inizio e nel corso dei se-coli. Sono state prodotte delle “galvano” ed elettrotipi moderni mentre una quantità di esemplari in argento repoussé della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX è stata prodotta per essere montata su supporti di legno o fusi in silhouette per essere applicati su pietra o altri supporti. 3.
Asta Finarte, 4 giugno 1997, lotto 19. 4.
Asta Sotheby’s, 12 gennaio 1991, lotto 67. 5.
Asta Sotheby’s, 8 dicembre 1994, lotto 65A. 6.
Museo Lázaro-Galdiano, inv. 427; e un altro che si trovava nella collezione di Kahlil Gibran, datato 1587 ma rozzamente reinciso per mostrare l’anno 1787, discusso il 26 novembre 1993 tramite corrispondenza con la National Gallery of Art, DC. (NGA cura-torial files). 7.
Vendita della Galérie Georges Petit della collezione Barthélemy Rey, 3 giugno 1905, lotto 175. 8.
Museo AD&A, inv. 1964.535 (già presso la collezione Sigmund Morgenroth e, prima di lui, presso il mercante Antonio Pini, Italia). 9.
Musei Civici d’Arte Antica, Ferrara, Inv. 8755. Vedi Charles Avery (2016): “Joseph de
Levis & Company. Renaissance Bronze-founders in Verona”, London, no. 44, pp. 92-
93, 134-35.
10.
Prospero Rizzini (1889): “Illustrazione dei civici musei di Brescia: Parte 2”, Apollonio, Brescia, n. 153, p. 57. 11.
Andrea Moschetti (1938): “Il Museo Civico di Padova: Cenni storici e illustrativi”, Pa-dova, pp. 230-31. 12.
Vedi per esempio Ulrich Middeldorf (1944): “Medaglie e placchette della collezione Sigmund Morgenroth.Donnelley & Sons Co.”, Chicago, IL., no. 342, p. 48 e John Gra-ham Pollard (1970): “Bozagni, Gian Federico”, DBI 12, pp. 480-81. 13.
Questa idea è stata posta per la prima volta nella vendita della collezione Maurice Fau-re. Vedi asta Leo Hamburger, Francoforte, 22-23 settembre 1913, n. 665. 14.
Francesco Rossi (1974): “Placchette. Sec. XV-XIX”, Neri Pozza Editore, Vicenza, Italia, nn. 218-20, pp. 130-31.9
15.
Anthony Geber (1989): “Name Inscriptions: Solution or Problem? Studies in the Histo-ry of Art, Vol. 22. Italian Plaquettes”, National Gallery of Art, Washington DC., pp. 247-63.
16.
C. Avery (2016): op. cit. (nota 9). 17.
Doug Lewis (2017), n. 492, voce per NGA Inv. 1942.9.220 (manoscritto inedito, accesso agosto 2017, con i ringraziamenti a Anne Halpern, Department of Curatorial
Records and Files): “Systematic Catalogue of the Collections, Renaissance Plaquettes.
National Gallery of Art, Washington DC”.
Amministratori della Galleria Nazionale d’Arte. Per una discussione su una pace del “Compianto”, donata da papa Pio IX al Duomo di Milano e la sua associazione con Bonzagna, si veda Luca Beltrami (1897): “L’arte negli arredi sacri della Lombardia” Milan, pp. 39-40, pl. 43.
18.
Wilhelm von Bode (1897): “Die Sammlung Oscar Hainauer”, Berlino/Londra, p. 101. 19.
Ernst Bange (1922): “Die Bildwerke des Deutschen Museums. Die Bildwerke in Bronze und in anderen Metallen”, Walter de Gruyter & Co., Berlino, no. 42, p. 7. 20.
Max Bernhart (1926): “Die Plakettensammlung Alfred Walcher Ritter von Molthein, Wien: italienische, spanische, deutsche, niederländische, französische Arbeiten des 15. – 18. Jahrh”; Versteigerung in der Galerie Hugo Helbing, München, 17-18. Maggio 1926, n. 64, p. 8. 21.
Davide Banzato, Maria Beltramini e Davide Gasparotto (2000): “Placchette, bronzetti e cristalli incisi dei Musei Civici di Vicenza. Secoli XV-XVIII”, Colpo di Fulmine Editore, Verona. n. 87, p. 91; A. Geber (1989): op. cit. (nota 15); Eugenio Imbert (1941): “Le Placchette Italiane, secolo XV-XIX”, Edizioni Luigi Alfieri, Milano, n. 159, p. 62. 22.
Francesco Rossi ha ipotizzato una possibile connessione con il manierismo tusco-romano mentre James Draper ha notato la possibile influenza di pittori romani come Pe-rino del Vaga e Siciolante. Vedi rispettivamente Francesco Rossi (1985): “Rassegna della Placchetta Artistica dal XV al XVII secolo. 6° Triennale Italiana della Medaglia d’Arte 1984”, Milano, no. 17, pp. 173-74 e James David Draper (corrispondenza privata con Anthony Geber, prima del 1989). Rossi li ha più recentemente considerati parmensi o veneziani. Cfr. Francesco Rossi (2011): “La Collezione Mario Scaglia – Placchette”, volumi, I-III. Lubrina Editore, Bergamo, nn. IX.16-17, pp. 377-81. 23.
D. Lewis (2017): op. cit. (nota 17). 24.
C. Avery (2016): op. cit. (nota 9). 25.
Lewis suggerisce che l’attività di Tibaldi in Spagna tra il 1586-96 potrebbe aver portato ai calchi datati più tardi realizzati in Spagna, che recano l’iscrizione alternata lungo il fregio: GLORIA IN EXCELSIS DEO. D. Lewis (2017): op. cit. (nota 17).10
26.
Kelley Helmstutler Di Dio e Tommaso Mozzati (a cura di) (2020): “Artistic Circulation
between Early Modern Spain and Italy”, Routledge, UK..
27.
Riccardo Naldi (2018): “Magnificenza di Marmo: Bartolomé Ordóñez e Diego de Silóe”, Hirmer editori, pp. 226-77. 28.
Silvio Leydi (1998): “Milano e l’industria delle armi nel XVI secolo. Armature eroiche del Rinascimento italiano. Filippo Negroli e i suoi contemporanei”,. Metropolitan Mu-seum of Art, NY, pp. 25-60. 29.
Asta Rudolph Lepke, Berlino, 21 marzo 1911, no. 332, p. 49. 30.
R. Naldi (2018): op. cit. (nota 27). 31.
Il linguaggio figurativo dei rilievi in legno colorato della sacrestia della SS. Annunziata e la tipologia della loro doratura mostrano un corollario tra i temi iberico-napoletani qui discussi e l’influenza dei damaschinatori milanesi il cui stile ornamentale si riflette chia-ramente sui rilievi dell’Annunziata. Sebbene la storia dei rilievi sia complessa, si pensa che molte delle opere appartengano a una mano iberica non identificata (responsabile delle sculture a tutto tondo di “Daniele”, “Ezechiele” e “Geremia”), informata sulle ope-re di Ordóñez ovvero sono state copiate dalle opere di questo artista.
In realtá, un simile scultore, attivo negli anni 1550 a Napoli e di origine iberica, può es-sere stato determinante nella condivisione dell’iconografia che ha portato allo sviluppo dei Rilievi dell’“Adorazione” e del “Compianto”. Tale tangenziali artisti iberici attivi a Napoli le cui opere rimangono non identificate comprendono Pietro della Plata, Luigi Muños, un maestro chiamato Domenico e altri. Vedi Letizia Gaeta (2015): “Ritorno all’Annunziata e alla Napoli dei viceré. Dalla parte di Geronimo D’Auria” in “Intaglia-tori incisori scultori sodalizi e società nella Napoli dei viceré – Ritorno all’Annunziata”, Università del Salento, pp. 34-37. 32.
Questa teoria è stata per la prima volta espressa da Francesco Abbate (1986): “Appunti su Bartolomé Ordóñez e Diego de Siloe a Napoli e in Spagna in Prospettiva”, no. 44, pp. 27-45 e approfondito da Letizia Gaeta (2000): “Le Sculture della Sagrestia dell’Annunziata a Napoli. Nuove presenze iberiche nella prima metà del Cinquecento”, Galatina e L. Gaeta (2015): op. cit. (nota 31) mentre Giancarlo Gentilini e Francesco Caglioti hanno postulato un’attribuzione del rilievo della cappella Teodori a Berruguete.
Cfr. Francesco Caglioti (2001): “Alonso Berruguete in Italia: un nuovo documento fio-rentino, una nuova fonte donatelliana, qualche ulteriore traccia, in Scritti di storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin” (a cura di Mario Di Giampaolo ed Elisabetta Sac-comani), Paparo Edizioni, Napoli 2001, pp. 109-46. C.D.
Dickerson III ipotizza che, se Beruguete avesse visto le realizzazioni di Ordóñez alla Cattedrale di Barcellona, dove si trova il pannello del “Compianto” avrebbe conosciuto.
Vedi C.D. Dickerson (2018): “Return to Spain, Pintor del Rey, and Learning to Sculp-ture” in “Alonso Berruguete – First Sculptor of Renaissance Spain”, National Gallery of Art, DC., pp. 36-53.11
33.
Il dettaglio della caratteristica del volto di Cristo sul rilievo del “Compianto”, con i ca-pelli rimboccati dietro l’orecchio e la spalla e una ciocca che cade di fronte, è un motivo senza dubbio circolato nella bottega di Berrugeute. Vedi Mark McDonald (eds. C.D.
Dickerson III e Mark McDonald) (2019): “Becoming a Draftsman and the Primacy of Drawing” in “Alonso Berruguete – First Sculptor of Renaissance Spain”, National Gal-lery of Art, DC, p. 83. 34.
Giralte è ritenuto uno degli oficiales o scultori principali per gli stalli del coro della Cat-tedrale di Toledo. Vedi Wendy Sepponen (eds. C.D. Dickerson III e Mark McDonald) (2019): “Transforming the Choir of Toledo Cathedral in Alonso Berruguete – Primo scultore del Rinascimento Spagna”, National Gallery of Art, DC, p. 155. 35.
Museo Nazionale di Scultura, Valladolid, Inv. CE0434. Precedentemente situato presso il Convento dei Trinitarias de San Bartolomé di Valladolid. 36.
Jesús María Parrado del Olmo (a cura di Carlos Herrero Starkie) (2019): “Tesori della scultura rinascimentale spagnola. L’origine della Maniera spagnola”, Istituto di Ricer-ca sugli Antichi Maestri. 37.
Mentre non è noto che Giralte avvia lavorato in metallo, Wendy Sepponen suggerisce che potrebbe aver fornito modelli, a tutto tondo, per le figure in bronzo dorato che ador-nano i pulpiti che fiancheggiano la cappella maggiore della cattedrale di Toledo, esegui-ti da Francisco Villapando. Vedi W. Sepponen (2019): op. cit. (nota 34). 38.
M. McDonald (2019): op. cit. (nota 33). 39.
M. McDonald (2019): op. cit. (nota 33). Vedi anche José Martí y Monsó (1898-1901): “Estudios histórico-artísticos relativos principalmente a Valladolid: basados en la inve-stigación de diversos archivos”, Leonardo Miñón, Valladolid-Madrid, pp. 331-34. 40.
I documenti giudiziari mostrano la presenza di Giralte a Madrid in questo anno, conte-stando le sue proprietà ereditate con la dote della moglie avuta dal suo primo marito.
Vedi J. Martí y Monsó (1898-1901): op. cit. (nota 39), p. 388. [40bis.
Consiste in una particolare tecnica decorativa per la realizzazione di immagini sacre su legno policromato, in cui la superficie intagliata viene ricoperta da uno strato di foglia d’oro zecchino su cui è applicato uno strato di bolo d’argilla che poteva avere dei colori dal rosso aranciato fino al marrone cupo]. 41.
Kunsthistorisches Museum, Inv. A752. 42.
Silvio Leydi (2016): “Mobili milanesi in acciaio e metalli preziosi nell’età del Manierismo.
Fatto in Italia. Dal Medioevo al Made in Italy”, Silvana Editoriale, Torino, pp. 121-37. 43.
S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42). 44.
S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42), cfr. nota 3.12
45.
Le trattative per l’assunzione a contratto di Fava con Polacini iniziano dal 29 luglio 1545. Cfr. S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42), cfr. nota 17. 46.
Silvio Leydi (2019): “Due altaroli gemelli in acciaio del secondo cinquecento milane-se”’ Nuovi Studi, n. 24, pp. 79-91. 47.
S. Leydi (2019): op. cit. (nota 46), cfr. nota 26. 48.
S. Leydi (2019): op. cit. (nota 46). 49.
La trattativa relativo alla tavola è datato 18 ottobre 1559. Pare che, come riferimento, sia stato inviato anche un pomo di spada disegnato da Leoni. Cfr. S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42), cfr. nota 5 e S. Leydi (2019): op. cit. (nota 46), cfr. nota 23. 50.
La collaborazione di Battista de Angelis fu prolungata di un altro anno il 29 aprile 1561.
Cfr. S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42), vedi nota 40. 51.
Si veda la nostra nota 31. 52.
S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42), vedi nota 39 e anche Silvio Leydi (1998): “Giovan Battista Panzeri, detto Zarabaglia, intagliatore in ferro e soci”, Nuovi Studi, n. 6, p. 39 e note 53-54. 53.
Il contratto per l’assunzione di Appiani allo studio di Polacini è documentato 30 giugno 1563. Cfr. S. Leydi (2016): op. cit. (nota 42), vedi nota 39 e anche S. Leydi (1998): op. cit. (nota 52). 54.
Lewis identificó per primo il Borromeo come possibile committente dei rilievi, sugge-rendo che la sua popolarità e la sua influenza potrebbero anche aver contribuito a pro-mulgare la loro popolarità. Si veda D. Lewis (2017): op. cit. (nota 17). 55.
D. Lewis (2017): op. cit. (nota 17). 56.
I pannelli in rilievo furono poi policromati nel 1632 da Pedro de Landa. Vedi Gran En-ciclopedia de Navarra (enciclopedianavarra.com) accesso, marzo 2020. La presenza del motivo dell’“Adorazione” in Urroz fu osservata per la prima volta da Priscilla Muller (1972): “L’età dell’oro della Spagna in argento”, Apollo Magazine, 95:122, aprile 1972, p. 271. 57.
Charles Avery (1998): “La Spezia. Museo Civico Amedeo Lia. Sculture, Bronzi, Targhe, Medaglie”, CR La Spezia Fondazione, n. 210, p. 290. 58.
D. Lewis (2017): op. cit. (nota 17). 59.
Attilio Troncavini (2010): “Placchetta cinquecentesca o falso di fine Ottocento?”’ http://www.antiqua.mi.it. Accesso marzo 2020.13
Didascalie.
Fig. 01. “Adorazione dei pastori”, qui attribuita alla bottega o alla cerchia di Giovan Antonio Polacini (?), 1561, Milano, Italia, bronzo dorato con applicazioni in argento (Walters Art Museum, Inv. 54.229).
Fig. 02. “Lamento”, qui attribuito alla bottega o alla cerchia di Giovan Antonio Polacini (?), 1561 circa, Milano, Italia, bronzo parzialmente dorato con applicazioni in argento (De-troit Institute of Arts, Inv. 24.77).
Fig. 03. “Cristo che guarisce il cieco vicino a Gerico”, cerchio di Giovanni da Nola, legno colo-rato parzialmente dorato (Sacrestia della Santissima Annunziata Maggiore, Napoli).
Fig. 04.
Scudo da parata, anonimo, 1550-59 circa, Milano, Italia, acciaio damascato in argento e oro; Wallace Collection, UK, Inv. A325.
Fig. 05.
Dettaglio di un “Compianto”, qui attribuito alla bottega o alla cerchia di Giovan Anto-nio Polacini (?), 1561 circa, Milano, Italia (Detroit Institute of Arts) (sinistra); dettaglio di “Geremia” di Michelangelo Buonarroti, 1508-12 circa, Cappella Sistina, Roma (de-stra).
Fig. 06. “Lamento di Cristo” di Bartolomé Ordóñez, 1518-19 circa, Barcellona, Spagna, noce (collezione privata).
Fig. 07. “Deposizione di Cristo” di Bartolomé Ordóñez, 1518-19 circa, legno (stalli del coro del-la Cattedrale di Barcellona).
Fig. 08. “Deposizione” di Bartolomé Ordóñez, marmo (Tomba di Bonifacio nella Chiesa dei Santi Severino e Sossio, Napoli) (in alto); “Compianto”, scultore napoletano anonimo, anni 1520-30 circa (altare della cappella Vicariis del Duomo di Salerno, Italia) (in basso).
Fig. 09.
Dettaglio di una “Deposizione” di Bartolomé Ordóñez (Tomba di Bonifacio, Napoli) (in alto a sinistra); dettaglio di un’“Adorazione” di Bartolomé Ordóñez, marmo (Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli) (in basso a sinistra); dettagli di un “Lamento e Ado-razione” in bronzo (a destra).
Fig. 10. “Adorazione” di Bartolomé Ordóñez, marmo (Cappella di Caracciolo di Vico nella chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli).
Fig. 11.
Dettaglio dell’“Adorazione”, qui attribuito alla bottega o cerchio di Giovan Antonio Po-lacini (?), 1561, Milano, Italia, bronzo dorato con applicazioni in argento; Walters Art Museum, Inv. 54.229 (sinistra); “Annunciazione della Vergine”, cerchio di Giovanni da Nola, legno colorato parzialmente dorato (Sacrestia della Santissima Annunziata Mag-giore, Napoli) (destra).
Fig. 12. “Giobbe sul letamaio oltraggiato dalla moglie”, attribuito a Francisco Giralte, circa 1550, legno (Museo Nacional de Escultura, Valladolid).14
Fig. 13. “Adorazione e lamento”, qui attribuita alla bottega o alla cerchia di Giovan Antonio Po-lacini (?), ca. 1561, bronzo, Milano, Italia (sinistra); “Annunciazione” e “Sacra Fami-glia”, attribuite a Francisco Giralte, ca. 1550, legno (Museo Nacional de Escultura, Val-ladolid) (destra).
Fig. 14. “Sepoltura di Cristo” attribuita a Manuel Álvarez, 1550-55 circa, pannello di legno (collezione privata) (in alto); dettaglio dell’“Adorazione” di Manuel Álvarez, marmo (Museo Marés, Barcellona) (in basso a sinistra); dettaglio dell’“Adorazione”, Milano, 1561, bronzo (Walters Art Museum) (in basso a destra).
Fig. 15.
Dettaglio di una punta di lancia damascata con applicazioni in argento di Giovan Batti-sta Panzeri, 1560 (Kunsthistorisches Museum) (in alto); dettaglio di un’“Adorazione”.
Fig. 16.
Rilievi in acciaio damascato dell’“Ultima Cena”, “Miracolo dell’Eucarestia” e “Cena in Emmaus” di Giovan Antonio Polacini e Marco Antonio Fava, 1576.
Fig. 17.
Dettagli dell’“Adorazione”, qui attribuita alla cerchia o alla bottega di Giovan Antonio Polacini (?), Milano, 1561, bronzo (Walters Art Museum) (sinistra); dettagli dai rilievi del tabernacolo di Seefeld di Giovan Antonio Polacini e Marco Antonio Fava, 1576 (de-stra).
Fig. 18.
Particolare di una tavola di “Cristo che guarisce”, cerchia di Giovanni da Nola, legno colorato parzialmente dorato (Sacrestia della Santissima Annunziata Maggiore, Napoli) (a sinistra); particolare dell’“Adorazione”, qui attribuita alla cerchia o alla bottega di Giovan Antonio Polacini (? ), Milano, 1561, bronzo (Walters Art Museum) (secondo da sinistra; destra); dettaglio del rilievo dell’“Ultima Cena” del tabernacolo di Seefeld di Giovan Antonio Polacini e Marco Antonio Fava, 1576 (secondo da destra).
Fig. 19.
Pannello di legno dell’“Adorazione” di Miguel de Espinal, 1570 circa, altare maggiore della chiesa parrocchiale di Urroz in Navarra.

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Gesú Cristo, Maria Vergine e, forse, la Maddalena.Ma chi è I.AR.M.A.?

 in “Racconti di un collezionista”, rubrica di “Antiqua” (rivista on line di divulgazione scientifica nel campo dell’antiquariato), Milano, settembre 2021.

Rispetto agli ambienti artistici italiani e tedeschi, in Francia la produzione di placchette sembra essere stata relativamente limitata nei secoli; rari sono, peraltro, i testi che ne parlano (1 e 2) e, per giunta, questi non sempre sono esaurienti o convincenti.
A questo ultimo proposito, un caso è costituito dalle grandi piastre ovali che rappresen-tano il busto di Cristo di profilo volto a dx talvolta associato a quello della Vergine anch’essa di profilo ma volta a sx.
La piú nota fra quelle coppie di rilievi (fig. 1) è conservata presso il Museo di Belle Arti di Houston (Texas-U.S.A.) e viene descritta sul relativo catalogo (3). Entrambe le plac-chette sono confezionate entro un’identica cornice che potrebbe risalire alla bottega che le ha prodotte.

Fig. 1. Cristo e Maria.
Francia (?), prima metà del XVII secolo.
Bronzo, ovale.
Cristo : L. 120 mm; H. 160 mm.
Maria: L 118 mm; H. 155 mm.

Un’altra coppia di piastre consimili (fig. 2) è apparsa in un’asta tenutasi a Londra nel 2008 (4).

Fig. 2. Gesù Cristo e Maria.
Francia (?), XVII secolo.
Bronzo dorato. 141 x 183.

Una rappresentazione della Vergine dello stesso tipo di quelle citate si trova anche nella collezione di Mario Scaglia. Questa bella piastra dorata (fig. 3), non dispone peró della complementare immagine del Cristo. Francesco Rossi (l’autore del catalogo) l’assegna, con relativa certezza, ad ambito francese: come autore egli propone dubitativamente Pierre Goret e addirittura azzarda la data (1628) nella quale essa dovrebbe essere stata realizzata (5).

Fig. 3. Profilo di maria Vergine.
Bronzo fuso dorato. 148 x 199 mm.

Tutto ció premesso, dato che io stesso possiedo alcuni esemplari di questa tipologia e anche altre differenti immagini del Salvatore rispettivamente utili a circostanziarli, mi permetto di presentarli qui per contribuire attivamente alla discussione su una loro vero-simile identità e collocazione. Le piastre in questione le ho acquisite nel tempo sul mer-cato antiquario francese.

P1.530
P1.532
P1.533
P1.531
P1.534

Comincio con il dire che, rispetto alla coppia di placchette conservate presso il Museo di Houston, i miei esemplari sono tutti sensibilmente piú grandi al punto da lasciar sup-porre che quelle siano state realizzate con uno sfondo rimpicciolito ovvero (ma meno probabilmente) possano semplicemente essere delle interpretazioni, ancorché piuttosto fedeli, di esemplari precedenti come, ad esempio, i miei.
Oltre a ció, la placchetta P1.530 (fig. 4) (anche sulla base di verifiche dimensionali da punto a punto rispetto ad alcuni ricorrenti dettagli della figura di Cristo) è comunque dimensionalmente piú grande anche delle altre mie che risultano cosí essere, verosimil-mente, versioni successive e/o derivate da quella.
Analogamente, le placchette apparse a Londra appartengono anch’esse alla tipologia di quelle derivate.
A questo punto, occorre aggiungere che la placchetta P1.530 differisce da tutte per il fatto fatto di recare elegantemente incisa (dopo la fusione), la scritta EGO·SVM·VIA·VERITAS ET·VITA: in essa, le singole parole sono intervallate da una sorta di asterisco formato da quattro piccole cavità circolari disposte a croce e distanziate fra loro da una sorta di X.

Fig. 4

L’elegante versione della composizione si differenzia dalle successive anche per il fatto che, vicino alla spalla sx, la folta capigliatura del Cristo presenta qualche ricciolo (fig. 5) in piú rispetto alle altre; la bordura del manto che avvolge il busto del Signore è piut-tosto nitida ma anche piú sintetica rispetto a quella degli altri esemplari. Per quanto concerne, infatti, le versioni progressivamente (anche se di poco) piú ridotte, esse mo-strano tutte una bordura “rinforzata”.

Fig. 5

Infine, la piastra in questione reca incisa, sul fianco della spalla sx di Cristo ed entro una cornice rettangolare, la sigla I.AR.MA. (fig. 6) che sembra essere proprio la firma dell’Autore. Peraltro, non sono ancora riuscito a identificare quale artista o quale fonde-ria si celi dietro a quell’acronimo.

Fig. 6

Cosí, fino a prova contraria, la suddetta placchetta P1.530 costituisce, molto verosimil-mente, l’esemplare capostipite della serie di quelle fin qui conosciute.
Nonostante la diversa finitura della faccia superiore, tutte le mie placchette presentano un’analoga tecnica fusoria. L’esemplare maggiore presenta due fori in alto grazie ai quali poteva essere sospeso grazie a un filo; il secondo (P1.531), analogamente alla corrispon-dente figura femminile cui è abbinato (P1.534), presenta un foro in alto con il quale pote-va essere appeso; il terzo (P1.532), parzialmente dorato, presenta un appiccagnolo in la-mierino d’ottone saldato sul retro; l’esemplare piú ridotto (P1.533), infine, è inserito in 6
una cornice di lamierino d’ottone, ribadita sul retro, che comprende anche un appiccagno-lo ad anello.
Indubbiamente, la questione posta da questa famiglia di rilievi che mi incuriosisce mag-giormente, consiste nella figura femminile della placchetta P1.534 che è stata trovata abbinata alla P1.530: se si prescinde, infatti, dagli esemplari finora noti di “Vergine pendant di Cristo”, le donne velate fin qui citate e quelle della mia collezione, sembrano mostrare un’etá sensibilmente differente (fig. 7): piú giovane quella della placchetta in mio possesso, piú mature quelle delle placchette giá note.

Fig. 7

Formalmente modellata con analoghe intenzioni plastiche e decorative della figura rap-presentata dagli esemplari conosciuti e dello stesso Cristo, la giovane donna (velata e avvolta in una pregiata tunica con bordure riccamente ornate) della mia collezione, po-trebbe costituire una ulteriore versione della Madonna o, ipotesi forse piú intrigante, un’immagine di Maria di Magdala (detta Maddalena): se cosí fosse, questa tipologia di placchette formerebbe, con le altre due, una sorta di trittico. Occorre comunque aggiun-gere che tutte le donne appartenenti a questa serie sono certamente concepite come complemento di quelle dedicate a Cristo ma, mentre queste ultime mostrano un’esplicita derivazione stilistica da modelli di scuola italiana, le prime sono di ispirazione meno evidente.
Per quanto concerne i riferimenti compositivi del Cristo rappresentato in questa famiglia di placchette viene naturale ricordare che, a partire dal secondo quarto del XVI secolo, circolarono in Europa diverse versioni di una placchetta la cui immagine rappresenta il busto di profilo del Salvatore con la testa raggiata, volto a sx, circondata anch’essa dalla scritta EGO SVM VIA VERITAS ET VITA. Questa tipologia di placchette, della quale la mia (P1.82) è un esemplare di elevata qualità, è stata variamente attribuita: Valentino Donati (6) l’attribuisce a Giovanni Bernardi da Castel Bolognese, Ulrich Middeldorf a 7
Giovanni Antonio de Rossi; piú verosimilmente (come sostenuto da Francesco Rossi a proposito di una pace conservata ai Musei Civici di Brescia (7), essa puó essere stata concepita da un orefice italiano del settimo-ottavo decennio del ‘500.
Occorre aggiungere infine che a Brescia si conserva anche un rilievo in argento sbalzato che riprende esplicitamente l’immagine della piastra ovale in questione dalle quali diffe-risce soprattutto per l’aggiunta di un’aureola raggiata: Francesco Rossi la ritiene un’opera tarda seicentesca.
Desidero riportate qui anche la placchetta (P1.428) di cui conosco solo questo esempla-re in piombo di cultura barocca piú spiccatamente francese e compositivamente piú arti-colata nei modi: rispetto al Cristo raggiato di cui sopra, essa mostra una capigliatura on-dulata stilisticamente affine a quella delle placchette presentate.
Note. 1.
Ingrid Weber, Deutsche, Niederländicshe und Französische Renaissanceplaketten 1500-1600; Modelle für Reliefs an Kult-, Prunk- und Gebrauchsgegenständen (2 volumi), F. Bruckmann Graphische Kunstanstalten, München, 1975. 2.
Bertrand Bergbauer e Catherine Chédeau, Images en relief; la collection de plaquettes
du Musée National de la Renaissance (cahier n. 6), Edition de la Réunion des Musées nationaux, Paris, 2006. Codice ISBN 2.7118.5072-2. 3.
Jaques Fischer, Sculpture in miniature; the Andrew S. Ciechanowiecki Collection of gilt & cold medals and plaquettes, the Museum of Fine Arts. Houston, Texas, 10 december 1969-1 february 1970. 4.
James Morton e altri, Coins and medals, including Renaissance and later medals from the collection of dr. Charles Avery, etc., catalogo dell’asta tenuta da Morton & Eden a Londra, mercoledi 11 e giovedi 12 giugno 2008. 5.
Francesco Rossi, La collezione Mario Scaglia; placchette, 3 volumi, Lubrina Editore, Bergamo, 2011. Codice ISBN 978.88.7766.451-1 6.
Valentino Donati, Pietre dure e medaglie del Rinascimento; Giovanni Bernardi da Ca-stel Bolognese, Belriguardo, Ferrara, 1989. 7.
Francesco Rossi (a cura di), Catalogo delle placchette sec. XV-XIX, Musei Civici di Brescia, Neri Pozza Editore per il Comune di Brescia, 1974.

Donatello.

La nascita delle placchette rinascimentali e la loro interpretazione nella collezione di sculture di Berlino.

di Mike Riddick

Versione italiana a cura di Alessandro Ubertazzi.

Settembre 2021.

Durante la robusta tendenza alle acquisizioni museali, che si sviluppó al volgere del ventesimo secolo, Wilhelm von Bode (fig. 01) rappresentó, per conto di Berlino, la piú esplicita espressione del fascino che l’Europa subiva per il patrimonio artistico italiano.

In competizione, a livello regionale, con le collezioni stellari di Monaco e Dresda e in competizione, a livello internazionale, con Londra e Parigi, Bode trasformò Berlino in un importante centro accademico e culturale dedicato alla scultura rinascimentale.

Lo studio pionieristico di Bode sulle placchette rinascimentali iniziò nel periodo in cui tale settore si affermava come categoria della storia dell’arte: peraltro, egli ci lascia l’impressione di aver compreso il valore dell’acquisizione di quei piccoli rilievi, forse con l’aspettativa che, per lo studio regolare, avrebbe consentito di ottenere un quadro più ampio sulle loro origini, sul loro scopo, contesto e ruolo, nella piú ampio panorama dei bronzi rinascimentali.

L’efficacia di Bode nell’identificare opere importanti consentí a questo studioso di porsi al servizio di altri collezionisti e istituzioni, incoraggiando l’acquisizione di placchette accanto a opere d’arte più significative (1). In particolare, Bode mostró un’esplicita propensione a individuare opere legate alla maniera del genio artistico che stimava di più: Donatello.

Durante il mandato di Bode, il ritmo compulsivo delle acquisizioni museali fu accompagnato da un altrettanto efficace approfondimento della loro conoscenza. A Berlino l’enfasi sulle acquisizioni concernenti l’ambito di Donatello divenne il catalizzatore che rese quella cittá un luogo di studio sulla vicenda artistica di quell’Autore.

Un esempio dell’acuto intuito di Bode si riscontra a proposito della “Madonna degli Orlandini” (Inv. 55), inizialmente considerata da Bode come un’opera di Donatello, poi derubricata in seguito all’acquisizione della più magistrale “Madonna dei Pazzi” (Inv. 51) (2). L’allenamento dell’occhio e l’escalation dello sviluppo analitico nell’affrontare il tema delle placchette furono lenti, mentre le acquisizioni degne di nota assumevano una maggiore priorità. E’ cosí che molte placchette sono state inizialmente attribuite genericamente a Donatello o alla sua scuola senza una chiara distinzione sulle loro differenze o sul fatto che i loro autori fossero potenzialmente diversi.

A proposito di una placchetta che rappresenta “Putti che giocano” (Inv. 1024) (fig. 02), nel 1884 Bode l’attribuí a Donatello sulla base del suo supporto e dell’iconografia (3). Tuttavia, due anni dopo, una successiva valutazione di Émile Molinier assegnò quel rilievo alla scuola di Donatello (4). Peraltro, i contemporanei di Bode (Paul Schubring e Osvald Sirén) (5 e 6) mantennero l’attribuzione a Donatello mentre altri, come Leo Planiscig, collegarono il rilievo all’ambito Venezia (7). Ernst Bange osservò in seguito che la placchetta prendeva in prestito le sue figure di putti da due frammenti appartenenti al “Trono di Saturno” (8), un marmo classico un tempo situato nella Chiesa di San Vitale a Ravenna e documentato nelle collezioni di scultura veneziana dal XIV secolo (9). Nei decenni successivi, John Pope-Hennessey rafforzò l’ipotesi che il rilievo avesse probabili origini veneziane (10) e ora esso è stato sensibilmente allontanato dall’associazione con Donatello mentre è stato recentemente assegnato a un anonimo artista del Nord Italia, attivo durante il terzo quarto del XV secolo (11 e 12).

L’evoluzione degli studi che riguardano le placchette affini di un “Satiro con coppa e tirso” (Inv. 942) (13) e di una “Baccante che si stringe il seno e tiene un Rhyton” (Inv. 943) (fig. 03) (14) ricavate dal rovescio dello “Specchio Martelli” (15) costituisce un altro esempio dello sviluppo del pensiero degli intenditori.

Inizialmente annunciato da Bode come un capolavoro di Donatello (16), da allora lo specchio e le placchette derivate hanno infatti avuto una certa varietà di attribuzioni. L’attribuzione dello “Specchio Martelli” a Donatello fu mantenuta da Bode nonostante il contemporaneo disinteresse di Eugène Müntz per quella attribuzione (17 e 18).

L’iniziale attribuzione di Bode a Donatello fu debolmente seguita anche da altri (19) mentre studiosi di placchette come Planiscig, nel 1924 proposero un autore alternativo (20); quello stesso anno, Eric Maclagan lo considerò troppo tardivo perché fosse di Donatello, sebbene influenzato da lui (21). Verso la metà del XX secolo l’attribuzione a Donatello ebbe sempre meno peso e cosí fu accolta la tesi di Pope-Hennessey circa un’origine mantovana: questo portò poi all’attuale attribuzione a un anonimo “Maestro dello Specchio Martelli”, ritenuto attivo a Mantova nell’ultimo quarto del XV secolo (22).

La maggior parte delle placchette berlinesi ritenute di ambito donatelliano furono acquistate da Bode nel 1880 prevalentemente da un lotto di più di cento placchette cedute dal mercante d’arte fiorentino Stefano Bardini (fig. 04). Altre sono state acquistate negli anni precedenti alla stesura del fondamentale catalogo che Bode pubblicò nel 1904 sulle placchette e sui bronzi italiani (23). In realtá, Bardini, uno dei principali mercanti della sua epoca, ha sicuramente stimolato il gusto di Bode per la scultura italiana e forse ha anche incoraggiato il suo interesse per le placchette, dato che quell’antiquario le conosceva bene per via della sua attivitá di collezionista e commerciante in questo settore (24).

Il gruppo iniziale acquistato dal museo di Berlino nel 1880 è stato il primo a ricevere attenzioni scientifiche e molte di quelle placchette godettero di una pubblicazione precedente a “Les Plaquettes” di Émile Molinier, una voluminosa indagine del 1886 che accreditava il genere della placchetta come una specifica categoria storica dell’arte.

Molte delle acquisizioni di Bode riguardano piccoli rilievi in metallo come forma d’arte emergente nel Quattrocento, in particolare come oggetti di devozione. Due acquisti di Bardini comprendono una placchetta che rappresenta la “Vergine col Bambino” (Inv. 1028) (fig. 05) (25), purtroppo perduta dal 1945, e una pace che rappresenta la “Vergine col Bambino” entro una nicchia (Inv. 1034) (fig. 07) (26), anch’essa considerata perduta ma recentemente riscoperta a Mosca nel Museo Pushkin (27).

La sperimentazione fiorentina di piccoli rilievi in bronzo da parte di Donatello è parallela alle prime sperimentazioni di Filarete a Roma in questo stesso settore.

Gli esemplari del “Trionfo di Cesare su Re Giuba” (28) di Filarete o la sua pace raffigurante “S. Stefano di Linari” (29), sono entrambi databili agli anni 1430, un periodo in cui Donatello e i suoi collaboratori potrebbero aver iniziato a produrre rilievi autonomi, indicando che la propensione al formato del piccolo rilievo in metallo non è stata necessariamente l’invenzione di un singolo scultore ma piuttosto il risultato del clima culturale e delle richieste rivolte agli scultori di quel periodo (30).

La prima produzione fiorentina di Donatello è di tipo religioso e soddisfa cosí il bisogno spirituale e sociale di oggetti devozionali privati.

Inizialmente, Bode ha suggerito che Donatello potesse essere l’autore della prima “Vergine col Bambino” (fig. 05) (31), mentre Molinier l’ha nuovamente rinviata a un’attribuzione della scuola di Donatello (32).

Gli studiosi concordano comunque ampiamente sul fatto che la placchette si ispira a un prototipo in scala ridotta perduto, concepito da Donatello intorno al 1425-27 (33). Un

esemplare in stucco, calco di una placchetta, la cui policromia è attribuita a Paolo Schiavo intorno al 1435-40 (fig. 06) (34), suggerisce che il rilievo rappresenti una delle prime placchette devozionali del Rinascimento, databile intorno al 1425-35.

Nello stesso modo, la “Vergine col Bambino” entro una nicchia (fig. 07), datata intorno al 1430, è stata variamente attribuita a Donatello (35) o a un artista appartenente alla sua immediata cerchia (36). Alcuni la ritengono concepita direttamente nella sua piccola scala, mentre altri la considerano la versione ridotta di un prototipo più grande perduto. Douglas Lewis nota che essa impiega l’invenzione di Donatello della tecnica del rilievo stiacciato (scultura in bassorilievo) che istituiva una nuova forma seriale di scultura in metallo, un’alternativa alle riproduzioni in stucco, terracotta e cartapesta di quel periodo (37).

Più recentemente, su basi stilistiche, il presente Autore ha proposto una datazione più tarda del rilievo (circa 1440-54), come opera di Michele di Giovanni da Fiesole sotto l’influenza o l’assistenza dei collaboratori di Donatello: Michelozzo e Maso di Bartolomeo (38).

Un terzo rilievo ben diffuso che riguarda lo stesso soggetto è una placchetta che rappresenta la “Vergine col Bambino” tra due candelabri (Inv. 1031) (fig. 08). Bode sembra aver attribuito per primo questo rilievo a Bartolomeo Bellano, collaboratore di Donatello, sulla base delle caratteristiche del “Cristo bambino” (39); tuttavia, il catalogo che ha pubblicato nel 1904 lo attribuisce inspiegabilmente a Giovanni da Pisa (40). Il cambiamento di opinione effettuato da Bode potrebbe essere dovuto all’acquisizione di una terracotta che rappresenta la “Vergine col Bambino” (Inv. 2949) (fig. 09) nel 1902 da parte del Museo: in essa, il rilievo che rappresenta un simile tenero abbraccio tra Madre e Bambino assomiglia al gruppo posto fra i due candelabri. All’epoca dell’acquisizione della terracotta, Bode notò infatti la sua somiglianza con la Pala dell’Altare maggiore della Cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova, che è stata a lungo attribuita a Giovanni da Pisa fin dal XVI secolo (41).

Tra i contemporanei di Bode, Molinier suggerì che la placchetta fosse opera di una non identificata bottega padovana influenzata da Donatello (42) mentre Planiscig suggerì che fosse opera della bottega padovana di Donatello (43). Seymour de Ricci ipotizzò per essa un allievo di Donatello (44) mentre Charles Fortnum sembra averla inspiegabilmente attribuita a Cristoforo di Geremia con una data precedente (45). Maclagan si discosta da un’associazione padovana, tracciando invece un paragone con le copie del rilievo senese della “Madonna Piccolomini” di Donatello, presumibilmente perduto, della fine degli anni 1450 (46 e 47).

Due opere in maiolica realizzate a Gubbio, intorno al 1430-40, riproducono il motivo della placchetta e suggeriscono, pertanto, un’origine precedente (48).

A causa della sua rarità, l’effigie di “Cristo nel Sepolcro” sostenuta dagli angeli (Inv. 2576) (fig. 10), acquistata a Firenze nel 1900, è meno discussa. Bode la attribuisce alla scuola padovana di Donatello (49). Un calco unico di questa placchetta, conservato al Museo Civico di Brescia, presenta sul rovescio la già discussa placchetta della “Vergine col Bambino” (fig. 05): apparentemente si tratta di una produzione tardiva in cui l’accorta bottega di fonditori ha combinato due rilievi donatelliani in una singolare placchetta devozionale a due facce (50).

Il motivo del “Cristo nel Sepolcro” imita vagamente il “Cristo morto” di Donatello per l’altare maggiore della Basilica di Sant’Antonio a Padova ma gli angeli hanno maggiore analogia con gli austeri angeli custodi raffigurati su un rilievo degli anni 1420-40 che rappresenta la “Vergine col Bambino” e quattro angeli attribuito a Luca Della Robbia (51) (Inv. 136) o i vari angeli custodi raffigurati nei pannelli delle porte bronzee della Sagrestia Nuova del Duomo di Firenze realizzate, tra il 1446-75, da Luca Della Robbia con Michelozzo e Maso di Bartolomeo.

Indiscussa è invece una copia in terracotta o stucco del rilievo usata come pace al Museo Benedettino e Diocesano dell’Abbazia di Nonantola, compreso il suo timpano triangolare completamente formato e una base che rappresenta un bassorilievo di cherubini alati sul fronte del sepolcro (fig. 10). I calchi della placchetta potrebbero rappresentare modelli originariamente destinati a copie in serie realizzate in materiali di minore qualità, probabilmente destinati ad altari privati o a paci devozionali per chiese di provincia e mecenati privati.

I collaboratori di Donatello stavano certamente riproducendo il motivo del “Cristo nel Sepolcro”, come si deduce da una placchetta di bronzo di questo soggetto firmata da Bartolomeo Bellano (fig. 11) (52): questa dimostra l’influenza di Donatello attraverso il carattere del volto di Cristo che riprende le fattezze del crocifisso ligneo di Donatello, circa 1440-45, in Santa Maria dei Servi a Padova.

La meno articolata placchetta berlinese del “Cristo nel Sepolcro” condivide alcuni dei caratteri fisiognomici e facciali dell’unica placchetta del “Cristo risorto” che si trovs al Louvre, dubitativamente attribuita a un altro collaboratore di Donatello, Bertoldo di Giovanni, anche se più probabilmente essa è opera del Bellano (53).

Donatello e l’arte glittica.

Il contributo di Donatello alla riproduzione in bronzo delle gemme classiche a Firenze è generalmente trascurato; in realtà, la genesi di questa prassi è strettamente parallela alla riproduzione in bronzo delle gemme della collezione di Pietro Barbo presso la fonderia del Palazzo di San Marco (l’attuale Palazzo Venezia) a Roma nei primi anni 1450 (54).

Il “Busto” in bronzo di un giovane platonico (fig. 12) (55), probabilmente realizzato a Padova intorno al 1453-54, è ispirato a un modello antico di Eros che guida una biga, indossato come medaglione dal giovane idealizzato e che allude all’Allegoria dell’anima di Platone. Mentre la data e la paternità del busto di Donatello proposta da de Lewis rimangono discusse, egli ha argomentato che la collocazione del medaglione sul petto del giovane platonico da parte del suo Autore servì come ispirazione per una placchetta ovale ridotta dello stesso soggetto, eseguita a Firenze verso il 1455 da un membro della cerchia del Maestro (56). Un raro esempio, anche se ormai perduto, di questa placchetta fu acquistato da Bardini nel 1880 per il Museo di Berlino (Inv. 945) (fig. 13). Una placchetta affine che rappresenta  “Bacco che scopre Arianna a Nasso” (Inv. 2804) (fig. 13), è stata acquisita nel 1904, anch’essa ora perduta: essa ha le stesse dimensioni della placchetta di “Eros” ed è stata probabilmente eseguita dalla stessa mano (57). Queste due placchette, con la loro libera interpretazione della glittica classica in scala ingrandita, sono uniche per quel periodo.

L’“Eros”, in assenza di una precisa fonte antica, indica l’originalità dell’autore del “Giovane platonico” attraverso l’impiego di un tema classico che riflette la virtù caratteristica del soggetto. Un simile slancio creativo può essere riscontrato nel “Trionfo dell’Orgoglio” in bassorilievo di Donatello, raffigurato sull’elmo di Golia ai piedi del suo David in bronzo, realizzato intorno al 1430-40 (fig. 14). Donatello qui reinventa liberamente un antico trionfo, probabilmente sotto l’influenza dei suoi committenti umanisti.

Un cammeo classico in sardonica ora a Napoli (fig. 15) (58), un tempo appartenuto a Pietro Barbo e poi a Lorenzo de’ Medici (dopo il 1471), potrebbe essere servito come riferimento per il rilievo collocato da Donatello sull’elmo di Golia (59 e 60). Verso la metà degli anni 1450, la bottega di Donatello conosceva il motivo, che appare riprodotto in forma più grande in uno dei tondi attribuiti agli assistenti di Donatello responsabili dei fregi del cortile interno di Palazzo Medici (fig. 16) (61).

Il ruolo principale di Donatello nei tondi commissionati dai Medici potrebbe averlo spinto a condividere modelli antichi con i collaboratori attivi nella loro esecuzione. Oltre ai disegni e ai calchi in gesso, le placchette glittiche provenienti dalla fonderia romana del Barbo sono riferimenti possibili per tali modelli (62). L’inventario delle opere del Barbo conferma che egli possedeva il cammeo del “Trionfo” (63), mentre i calchi documentati delle placchette, uno dei quali si trovava a Berlino (Inv. 944) (64) sono certamente stati fusi nella sua officina romana (65). Questa ipotesi è avvalorata dalla riproduzione di un altro cammeo classico raffigurante un “Centauro” dionisiaco (66) (anch’esso un tempo nella collezione del Barbo e riprodotto sotto forma di placchetta), di cui un esemplare si trova a Berlino (Inv. 961) (fig. 17). Il motivo appare anche come uno dei tondi nel cortile del Palazzo ed è ulteriormente incorporato nella statua fiorentina di “Giuditta e Oloferne” che Donatello ha realizzato a Firenze, mostrato seminascosto come un ornamento pettorale sul mantello di Oloferne, sottolineando abilmente il suo carattere selvaggio (fig. 18).

Mentre la fonderia del Barbo a Roma era impegnata nella fabbricazione in serie della sua collezione di glittici in bronzo, la bottega di Donatello era invece occupata con una libera, unica interpretazione ingrandita ed eloquente dei soggetti che queste incisioni fornivano. Sebbene Bode abbia commentato l’associazione di queste placchette con i tondi di Palazzo Medici, non li ha collegati alla produzione della bottega di Donatello, scegliendo invece di classificare genericamente l’“Eros” e il “Bacco” come una produzione padovana ispirata all’antico (67). Tuttavia, per la loro scala, queste due placchette di dimensioni maggiori sono uniche per il periodo e potrebbero essere suggestivamente una produzione fiorentina realizzata in stretta vicinanza con l’esecuzione dei tondi (68).

Donatello potrebbe non essere stato direttamente coinvolto nella produzione seriale di placchette derivate dall’antico, sebbene l’incorporazione di glittici classici su opere scolpite durante il suo tardo periodo fiorentino possa essere servita da stimolo per la loro riproduzione sommaria come rilievi indipendenti da parte dei suoi collaboratori. L’indiscutibile contributo di Donatello consiste nell’approccio stilistico e interpretativo umanista che egli diede loro e che mirava a soddisfare l’appetito dei suoi clienti fiorentini.

Mentre la collezione berlinese di placchette ispirate a Donatello è stata messa in ombra da opere più grandi dell’artista, il nucleo di placchette raccolte da Bode e collegate al Maestro restituiscono un’importante rappresentazione delle origini e dello sviluppo dei piccoli rilievi in metallo prodotti durante il primo Rinascimento.

Il catalogo esaustivo effettuato da Bode della collezione di placchette di Berlino rimane, peraltro, un punto di riferimento nel progresso della comprensione del genere placchette, affinando anche la nostra comprensione dell’influenza, sia stilistica che inventiva, di Donatello sui collaboratori e seguaci successivi.

Note.

1.

Jeremy Warren (2014), “Cross, disappointed and somewhat spiteful: Bell and plaquettes. Medieval and Renaissance Sculpture in the Ashmolean Museum, Vol. 3, Plaquette”, Ashmolean Museum Publications, London, UK, pagg. 755-59.

2.

Neville Rowley (2016, 15 Feb), “Madonna und Kind (die Orlandini Madonna) / Virgin and Child (called the Orlandini Madonna)”, SMB-digital Database delle collezioni online.

3.

Wilhelm von Bode (1884), “Die italienischen Skulpturen der Renaissance in den Königlichen Museen zu Berlin. III. Bildwerke des Donatello und seiner Schule”, Annuario delle collezioni reali d’arte prussiane, V, pagg. 30 e 42.

4.

Émile Molinier (1886), “Les Bronzes de la Renaissance. Les plaquettes. Vol. I, Parigi, n. 77, pagg. 45-46.

5.

Paul Schubring (1907), “Donatello. Des Meisters Werke. 277 Abbildungen, Stuttgart and Leipzig, Deutsche Verlags-Anstalt, pag. 94.

6.

Osvald Sirén (1909), “Florentinsk Renässansskultur och andra Konsthistoriska ämnen”, Stockholm, Wahlström & Widstrand, pag. 132.

7.

Leo Planiscig (1921), “Venezianische Bildhauer der Renaissance”, Vienna, Anton Schroll, pagg. 327-328.

8.

Ernst Bange (1922), “Die Italienischen Bronzen der Renaissance und des Barock, Zweiter Teil: Reliefs und Plaketten”, Berlin und Leipzig, n. 296, pagg. 39-40.

9.

Oliviero Forzetta (1335), “Richiedi i quattro putti scolpiti che sono stati portati da San Vitale”; cfr. Cristina de Benedictis, “Per la storia del collezionismo italiano”. Fonti e documenti, Firenze 1991, pag. 148.

10.

John Pope-Hennessy (1965), “Renaissance Bronzes from the Samuel H. Kress Collection. Reliefs, plaquettes, statuettes, utensils and mortars”, Phaidon Press, London, pag 95.

11.

Volker Krahn (2003), “Bronzetti veneziani. Die venezianischen Kleinbronzen der Renaissance aus dem Bode-Museum Berlin”, Cologne, Dumont, n. 1, pagg. 32-35.

12.

N. Rowley (2016, 24 Feb), “Spielende Amoretten / Playing Putti”, SMB-digital Database delle collezioni online.

13.

W. Bode (1904), “Konigliche Museen zu Berlin, Beschreibung der Bildwerke der Christlichen Epochen, Vol. II, Die Italienischen Bronzen”, Berlin, Germany, n. 293, pag. 39.

14.

W. Bode (1904), op. cit. (nota 13), n. 294, pag. 39.

15.

Victoria & Albert Museum, Inv. 8717:1, 2-1863.

16.

W. Bode (1892-1904), “Denmaler der Renaissance-Sculptur Toscanas, Vol. I”, Munich, pagg. 26-28.

17.

Eugene Müntz (1885), “Donatello, Librairie de l’art, Paris, France, pag. 92.

18.

Giancarlo Gentilini, Paola Barocchi, et al. (eds.) (1985), “Omaggio a Donatello. 1386-1986. Donatello e la storia del Museo”, exh. cat. (Florence, Museo Nazionale del Bargello, 19 dicembre 1985-30 maggio 1986).

19.

Per esempio: C.D. Fortnum (ca. 1870s-89), “Fortnum Notebook Catalog, Bronzes”, n. 3.15; O. Sirén (1914), “American Journal of Archaeology, ser. 2, XVIII”, pag. 444; E. Bange (1922), op. cit. (nota 8), pag. 39, nos. 293-94; Francis Bell (ca. 1930): “Ashmolean Museum Catalogue of Plaquettes”, testo, n. 9; and Seymour de Ricci (1931), “The Gustave Dreyfus Collection: Renaissance Bronzes”, Oxford, UK, n. 5, pag. 7.

20.

L. Planiscig (1924), “Kunsthistorisches Museum Wien: Die Bronzeplastiken, Satuetten, Reliefs, Geräte und Plaketten”, Vienna, nn. 390-91, pagg. 240-41.

21.

Eric Maclagan (1924), “Catalogue of Italian Plaquettes”, Victoria and Albert Museum, London, pag. 17.

22.

J. Pope-Hennessey (1964), “Catalogue of Italian Sculpture in the Victoria and Albert Museum”, London, pagg. 325-29 and J. Pope-Hennessey (1965), op. cit. (nota 10), nn. 115-16, pagg. 37-38.

Per una recente valutazione sullo “Specchio Martelli” e le sue placchette derivate si veda J. Warren (2014), nn. 115-16, “Medieval and Renaissance Sculpture in the Ashmolean Museum, Vol. 3: Plaquettes”, Ashmolean Museum Publications, UK, nn. 288-291, pagg. 831-35, o Francesco Rossi (2006) nn. 115-16, “Placchette e rilievi di bronzo nell’età del Mantegna”, Skira, Mantova e Milano, nn. 48-50, pagg. 67-69.

Il Museo Bode ha un calco moderno del rilievo dello specchio nella sua collezione (Inv. 20-61), acquisito nel 1961.

23.

W. Bode (1904), op. cit. (nota 13).

24.

La passione di Stefano Bardini per le placchette è testimoniata da un nucleo intatto rimasto al Museo Bardini di Firenze e dalle sue due grandi vetrine: il contenuto di queste fu messo all’asta da Christie’s il 27 maggio 1902 e nuovamente offerto tramite l’American Art Association di New oYork il 23-24 aprile 1918 e, ancora prima della sua morte, offerto alle Anderson Galleries di New York il 18 febbraio 1921.

I lotti invenduti passarono al mercante collezionista Piero Vito Tozzi il cui interesse per essi venne probabilmente dal suo matrimonio con la figlia di Bardini (Emma) nel 1923.

25.

Sebbene perduto, la Gipsformerei conserva un’impronta in gesso del rilievo che è servita come prototipo per una quantità di copie tardive della metà del XX secolo: in esse,  il numero 1501 è interamente fuso nel suo rovescio e si riferisce al numero di catalogo presso la Gipsformerei (cfr. “Plaketten, Medaillen Italien, Frankreich, Deutschland Heft 8”, pubblicato tra il 1957-63).

26.

Un altro esemplare della “Vergine col Bambino” entro una nicchia si trova nella collezione di Berlino (Inv. 7321) ed è un’applicazione successiva del rilievo fuso integralmente con una cornice da pace degli inizi del XVI secolo. Bode conosceva un esemplare identico della collezione di Richard von Kaufmann di cui scrisse, nel 1917, una introduzione nel catalogo (cfr. W. Bode, et al (1917), “Die Sammlung Richard von Kaufmann”, Berlin, n. 165, pag. 9).

27.

N. Rowley (2015), “Donatello Forgotten and Rediscovered. On Five Works of Art Formerly in the Berlin Museums”, Jahrbuch Preussischer Kulturbesitz, 51, pagg. 141-63, fig. 04.

28.

Conosciuto da esempi al Louvre (Inv. MR3392), alla National Gallery of Art (Washing-ton, DC; Inv. 1999.102.1) e uno offerto dai Fratelli Tomasso (cfr. “Tomasso XXV, A Celebration of Notable Sales”, 2018, Londra, n. 31 pagg. 70-72). Va notato che mentre, per i rilievo, tutti gli studiosi hanno suggerito una datazione al 1433 circa, Robert Glass ha suggerito, al contrario, un’interessante teoria che lo data al 1442-43 (cfr. Robert Glass (2011), “Filarete at the Papal Court: sculpture, ceremony and the antique in

early Renaissance Rome”, PhD thesis. Princeton University. pag 520, fig. 82).

29.

Situato nel comune di Barberino (Val d’Elsa), fuori Firenze, Italia.

30.

Marika Leino (2013), “Fashion, Devotion and Contemplation. The Status and Functions of Italian Renaissance Plaquettes, Peter Lang, Bern, Switzerland, pagg. 17-19.

31.

W. Bode (1884), op. cit. (nota 3), pag. 39.

32.

E. Molinier (1886), op. cit. (nota 4), Vol. I, n. 65, pagg. 34-35.

33.

Per una discussione in merito si veda: N. Rowley (2016, 24 feb), “Madonna in Halbfigur / Vergine e Bambino” (Inv. 1028), SMB-Digital Database della collezione online.

Per una discussione sulla datazione si veda: Francesco Caglioti (2010) “Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le arti a Siena nel primo Rinascimento”, exh. cat. (Siena, Santa Maria della Scala, Opera della Metropolitana, Pinacoteca Nazionale, 26 marzo-11 luglio 2010), Milano, Federico Motta Editore, pag. 382.

34.

Victoria & Albert Museum, Inv. A.45-1926.

35.

Cfr. E. Bange (1922), op. cit. (nota 8), n. 292, pag. 39; E. Maclagan (1924), op. cit. (nota 21), pagg. 16-17; Ulrich Middeldorf (1944), “Medals and Plaquettes from the Sigmund Morgenroth Collection”, Chicago, nn. 296-296, pag. 41, nos. 295-96; Charles Avery (1989), “Donatello’s Madonnas revisited”, in “Donatello-Studien”, Munich, pagg. 227-28.

36.

Cfr. G. Gentilini, P. Barocchi, et al. (1985), op. cit. (nota 18), n. 17, pagg. 430-31; J. Pope-Hennessy (1993), “Donatello Sculptor”, NY, London, Paris, pagg. 252-53; Douglas Lewis (2006), “Placchette e rilievi di bronzo nell’età del Mantegna”, Mantova e Milano, Skira, pagg. 3-15.

37.

Lewis descrive la “Vergine col Bambino” entro una nicchia come “forse la prima vera placchetta” (cfr. D. Lewis [2006], op. cit. [note 36], traduzione fornita tramite manoscritto inglese, febbraio 2016..

38.

Michael Riddick (2020), “Michele di Giovanni da Fiesole and the origins of the Florentine plaquette”, http://www.renbronze.com (settembre 2020).

39.

W. Bode (1891), “Lo Scultore Bartolomeo Bellano da Padova”, Archivio storico dell’ Arte IV, pagg. 397-416.

40.

W. Bode (1904), op. cit. (nota 13), n. 671, pag. 55.

Una libera associazione di questa placchetta con Giovanni è persistita negli ultimi anni ad opera di Francesco Rossi che ne nota i sottili riferimenti alla sua maniera (cfr. F. Rossi, “Placchette e rilievi di bronzo nell’età del Mantegna”, Mantova e Milano, Skira, 2006, n. 1,  pagg. 38-39).

41.

W. Bode (1902), “Die italienische Plastik”, 3’ edizione, Berlin, pag 123.

Sulle esitazioni dell’attribuzione della Pala Ovetari tra Giovanni da Pisa e Niccolò Pizzolo, si veda Mattia Vinco, “Pizzolo Niccolò…”, in Dizionario biografico degli italiani, 84, 2015 online.

Si veda anche Anne Markham Schulz, “Francesco Squarcione e la sua scuola, con un’aggiunta sulla Pala Ovetari”, Ricche minere, 4 (2017), 8, pagg. 23-53.

42.

E. Molinier (1886), op. cit. (nota 4), Vol. II, nn. 367-371, pagg. 27-30.

43.

L. Planiscig (1919), “Kunsthistorisches Museum Wien: Die Estensische Kunstsammlung, I: Skulpturen und Plastiken des Mittelaters und der Renaissance”, Vienna, n. 174, pag. 174.

44.

S. Ricci (1931), op. cit. (nota 19), n. 233, pag. 172.

45.

C. D. Fortnum (1876), “A Descriptive Catalogue of the Bronzes of European Origin in the South Kensington Museum”, London, pag. 36.

46.

E. Maclagan (1924), op. cit. (nota 21), pag. 18.

47.

F. Caglioti (2010), op. cit. (nota 33), n. D.21, pagg 348-53.

48.

Louvre Inv. OA 1474 and Sotheby’s 6 Dec 2011, Lot 1.

49.

W. Bode (1904), op. cit. (nota 13), n. 679, pag. 56.

50.

F. Rossi (1974), “Placchette. Sec. XV-XIX”, Neri Pozza Editore, Vicenza, n. 15 a-b, pagg. 10-11.

51.

F. Rossi (2006), op. cit. (nota 36), n. 2, pag 38.

52.

National Gallery of Art (Washington DC), Inv. 1957.14.139.

53.

Louvre Inv. OA7411.

Indiscusso in letteratura ma fu attribuito a Bertoldo quando fu inventariato al ricevimento della donazione Brauer nel 1922 (Philippe Malgouyres, comunicazione privata, gen 2019).

Il presente Autore suggerisce una più probabile affinità con la maniera di Bartolomeo Bellano (cfr. Michael Riddick, “Un Cristo Redentore trascurato nell’ambito di Bartolomeo Bellano”, http://www.renbronze.com (settembre 2020).

54.

Per una spiegazione di questa ipotesi, prevalentemente accettata dagli studiosi di placchette, si veda Pietro Cannata (1982), “Rilievi e Placchette del XV al XVIII secolo”, Roma, Museo di Palazzo Venezia, Roma.

55.

Museo Nazionale del Bargello, Inv. Bronzi n. 8.

56.

D. Lewis (2001), “Rehabilitating a Fallen Athlete: Evidence for a Date of 1453-54 in the Veneto for the Bust of a Platonic Youth by Donatello”, Studies in the History of Art, n. 62. National Gallery of Art. Yale University Press.

57.

Di analoga importanza è una placchetta ingrandita del famoso “Diomede e Palladio”, rappresentato anche da un esemplare a Berlino (Berlino Inv. 953), ricevuto in dono da James Simon nel 1889 e una placchetta ingrandita di “Apollo e Marsia” (Berlino Inv. 956), tratta dalla gemma “Sigillo di Nerone” a Napoli (Museo Archeologico), acquisita in Italia nel 1887.

Il loro formato verticale le distingue leggermente dalle grandi placchette di “Eros e Bacco” a mano libera, anche se la loro dimensione e la loro configurazione possono essere messi in relazione.

Tuttavia, gli studiosi hanno generalmente suggerito che essi appartengono alla tardiva tendenza rinascimentale di ingrandire i busti glittici degli imperatori romani in forma di placchetta (vedi D. Lewis [2001], op. cit. [nota 56], vedi nota 32).

Notevole è anche la più ampia diffusione di queste ultime due placchette  rispetto ai rilievi di “Eros e Bacco”, molto più scarsi, ciascuno conosciuto da meno di una manciata di esempi.

58.

Cammeo in agata sardonica di “Dioniso in viaggio in un carro trainato da Psiche”, attribuito a Sostratos. Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Inv. 25840.

59.

H. W. Janson (1957), “Donatello and the Antique”, in “Donatello e il suo tempo”, atti dell’VIII  convegno internazionale di studi sul Rinascimento, Firenze.

60.

F. Caglioti (2000), “Donatello e I Medici; storia del David e Della Giuditta”, Firenze, L.S. Olschki.

61.

G. Gentilini, P. Barocchi, et al. (eds.), op. cit. (nota 18).

62.

Calchi di placchette romane ben diffuse di “Diomede e Palladio” di Pietro Barbo, il cui soggetto appare anche su un tondo a Palazzo Medici, si tratta di un altro esempio che la bottega di Donatello utilizza potenzialmente le placchette come modelli per i tondi.

63.

Si veda l’inventario di Pietro Barbo del 1457 riprodotto in P. Cannata (1982), op. cit. (nota 54).

64.

acquisito nel 1887 e perduto dal 1945.

65.

Il numero limitato di esemplari superstiti del “Trionfo con i tormenti” e della “Risoluzione d’amore” suggerisce che la loro produzione sia da riferire a una sola fonte, mentre l’analisi XRF di un esemplare alla National Gallery of Art (Washington DC) sostiene un’origine nella fonderia di Pietro Barbo. Vedi D. Lewis (2017), n. 25, voce per NGA Inv. 1957.14.150 (manoscritto inedito dell’agosto 2017, con ringraziamenti a Anne Halpern, Department of Curatorial Records and Files): “Systematic Catalogue of the Collections, Renaissance Plaquettes”, National Gallery of Art, Washington DC. Trustees of the National Gallery of Art.

66.

Il cameo adrianeo originale del II secolo si trova nel Museo Archeologico di Napoli.

67.

W. Bode (1904), op. cit. (nota 13), nn. 501-505, pagg. 36-37.

68.

Lewis fornisce un convincente argomento per la loro datazione e localizzazione.

Vedi D. Lewis (2001), op. cit. (nota 56). Vedi anche Giuseppe e Fiorenza-Vannel Toderi (1996), “Placchette Secoli XV-XVIII, Museo Nazionale del Bargello”, Firenze. Studio per Edizioni Scelte, Firenze, Italia, n. 1 pagg. 17-18.

Vale la pena notare che il soggetto della placchetta di “Bacco” è anche rappresentato come tondo nel fregio del cortile di Palazzo Medici. Diversi cammei antichi del soggetto erano noti nel Rinascimento, inclusi due già appartenuti ai Medici: un esempio frammentario appartenuto a Lorenzo de’ Medici (ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e un altro ora al Museo Archeologico di Firenze. Un altro esempio classico, la “Gemma Mantovana”, è nella collezione Yarborough (Regno Unito), da cui furono fuse una quantità di placchette (vedi Berlino Inv. 1594 per un esempio). Queste placchette furono probabilmente fuse a Roma nella fonderia di Pietro Barbo, anche se le teorie che suggeriscono una produzione fiorentina o mantovana per questa placchetta rimangono discusse. Si veda J. Warren (2014), op. cit. (nota 22), n. 355, pag. 900 e Francesco Rossi (2011), “La Collezione Mario Scaglia. Placchette, Vols. I-III”, Lubrina Editore, Bergamo, n. I.16, variante A, pagg. 47-48 e 517, fig. d.

Didascalie.

Fig. 01.

Foto ritratto di Wilhelm von Bode, 1901.

Fig. 02.

Putti che giocano”, 1450-75 circa, scultore anonimo del Nord Italia, bronzo (Museo Bode).

Fig. 03.

Satiro con coppa e tirso” e “Baccante che si strizza il seno e tiene un rhyton”, fine del XV secolo, attribuito al Maestro dello “Specchio Martelli”, bronzo (Museo Bode).

Fig. 04.

Foto ritratto di Stefano Bardini.

Fig. 05.

Vergine col Bambino”, 1430 circa, ambito di Donatello, piombo (Museo Bode).

Fig. 06.

Vergine col Bambino”, 1435-40 circa, ambito di Donatello con dipinti attribuiti a Paolo Schiavo, stucco e legno (Victoria & Albert Museum).

Fig. 07.

Vergine col Bambino” entro una nicchia, 1435-50 circa, ambito di Donatello, bronzo (Museo Pushkin di Mosca; in precedenza nel Museo Bode).

Fig. 08.

Vergine col Bambino” tra due candelabri, 1430-40 circa, ambito di Donatello, forse di Giovanni da Pisa (?), bronzo (Museo Bode).

Fig. 09.

Vergine col Bambino”, 1450 circa, attribuito a Giovanni da Pisa, terracotta (Museo Bode).

Fig. 10.

Cristo nel sepolcro sorretto da angeli”, 1450 circa, ambito di Donatello, forse di Bartolomeo Bellano o cerchia (?), pace in terracotta o stucco (a sx. Museo Benedettino e Diocesano dell’Abbazia di Nonantola), bronzo con tracce di doratura (a dx. Museo Bode).

Fig. 11.

Cristo morto con due angeli”, XV secolo, di Bartolomeo Bellano, bronzo (National Gallery of Art, DC).

Fig. 12.

Busto di giovane platonico”, Donatello o seguace, bronzo (Museo Nazionale del Bargello).

Fig. 13.

Eros che guida una Biga” e “Bacco che scopre Arianna a Nasso”, 1450 circa, ambito di Donatello, forse di Bertoldo di Giovanni (?), bronzo (Museo Bode).

Figg. 14.-16.

Dettaglio di un “Trionfo dell’Orgoglio di Golia” sull’elmo di Davide, 1440 circa, di Donatello, bronzo (in alto, Museo Nazionale del Bargello); “Dioniso su un carro trainato da Psiche”, metà-fine del I sec. a.C., attribuito a Sostratos, cammeo in agata sardonica (al centro, Museo Archeologico Nazionale di Napoli); “Dioniso su un carro trainato da Psiche”, intorno al 1450, bottega di Donatello, marmo (in basso, cortile di Palazzo Medici-Riccardi, Firenze).

Figg. 17.-18.

Centauro dionisiaco”, 1450 circa, da un cammeo classico, bronzo (a sx., Museo Bode); particolare di “Giuditta e Oloferne”, 1455-60 circa, di Donatello, bronzo (a dx., Palazzo Vecchio, Firenze).

Donatello; la nascita delle placchette rinascimentali e la loro interpretazione nella collezione di sculture di Berlino, versione italiana del testo “Donatello, the birth of Renaissance Plaquettes and their representation in the Berlin sculpture collection” di Michael Riddick, in “Academia”, rivista on line, New York, settembre 2021.

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Icone russe di metallo fuse in terra.

di Stefan Jeckel

Versione italiana a cura di Alessandro delle pagg. 35-38 (Künstlerische Techniken).

Luglio 2021.

Tecniche artistiche.

Uno studio particolarmente approfondito sulle icone metalliche russe indirizzerà, prima o poi, l’interesse dei ricercatori anche sui processi artistico-tecnici che furono usati nella produzione di tali immagini di culto.

Per questo motivo, si è cercato qui di tracciare lo sviluppo delle icone metalliche russe nei loro aspetti essenziali (25).

Fin dall’inizio, ci concentreremo su quelle opere che sono state prodotte mediante fusione, poiché esse costituiscono di gran lunga la maggior parte delle icone metalliche russe.

In Russia, il rame e ancor più le sue leghe (come il bronzo e l’ottone) furono i materiali preferiti per la produzione di icone metalliche.

Per semplificare le cose, oggi ci si riferisce quasi indiscriminatamente a tutti quei tipi di bronzo che consistono in una lega di rame di qualsiasi composizione. In senso stretto, naturalmente, si può parlare di bronzo solo nel caso di una lega rame-stagno, mentre l’ottone, noto anche come ghisa gialla, è una lega rame-zinco.

Una determinazione affidabile sul materiale si rivela comunque difficile sia quando le finiture della superficie (per esempio la doratura) ovvero la patina che si forma da sola [sugli oggetti] impediscono che le differenze di materiale si notino facilmente.

Naturalmente, i metodi di analisi chimica o fisica potrebbero fornire informazioni esatte ma, allo stadio attuale della ricerca, l’interesse a chiarire la questione dei materiali è ancora troppo basso per giustificare l’uso di tali metodi, che comporterebbero costi notevoli e, inoltre, perfino il rischio di danni [agli oggetti analizzati N.d.R.].

Oltre al rame e al bronzo, anche l’oro e l’argento furono utilizzati nelle officine russe per la produzione di icone di metallo; tuttavia, a causa del loro valore materiale relativamente elevato, questi due metalli preziosi furono principalmente riservati alle opere destinate alla nobiltà ricca e all’alto clero. Per contro, lo stagno, il piombo e il ferro, che servivano anche come materie prime, furono meno usati a causa della loro bassa resistenza alla corrosione.

Una volta presa la decisione di adottare un particolare materiale, l’artista doveva definire i particolari del soggetto della sua rappresentazione. In questo processo, come nel primo schizzo preliminare del soggetto e nei disegni, la sua libertá creativa aveva spesso un limitato margine di manovra poiché essa era legata ai modelli tradizionali della pittura di icone, molti dei quali erano addirittura registrati nei cosiddetti “manuali del pittore”, in conformità con le vecchie norme ecclesiastiche (26).

La vera realizzazione artistica aveva luogo solo nella fase successiva, cioè nel lavoro sul modello. Qui era necessario trovare un percorso creativo che, da un lato, rendesse giustizia alle peculiarità del materiale così come alle condizioni della sua malleabilità e, dall’altro, dovesse anche tener conto dei principi tradizionali dell’arte delle icone.

In questo senso, il rilievo, o più precisamente il bassorilievo, si è rivelato il mezzo di rappresentazione ideale. Nelle arti visive, il rilievo occupa, infatti, una posizione intermedia tra la scultura e la pittura. Dalla scultura riprende le possibilità di modellare la superficie statuaria, che la pittura non conosce; dalla pittura, invece, grazie alla sua relativa piattezza, può prendere in prestito i mezzi per modellare lo sfondo che, a loro volta, sono estranei alla scultura. In particolare, l’arte del bassorilievo consiste nell’unire questi due elementi completamente diversi del disegno alla massima armonia possibile, tenendo conto dell’effetto del materiale, la cui padronanza era comunque richiesta al modellatore di un’icona di metallo.

Il materiale con cui creare il modello dipendeva essenzialmente dalla tecnica di fusione da utilizzare nel singolo caso. Si poteva scegliere tra il processo di “fusione a cera persa” e le diverse varianti del processo di “fusione a fuoco” (27).

Il procedimento a cera persa, una tecnica artistica di fusione del metallo conosciuta fin dal terzo millennio, era probabilmente il più comune in Russia per la produzione di icone metalliche la cui parte anteriore e posteriore dovevano avere una finitura plastica superficiale; tuttavia, essa sembra essere stata ancora più importante per la fusione di rilievi traforati (28).

Mediante questa tecnica, l’artista plasma il suo modello nella cera e può perfino migliorarne la lavorabilità aggiungendo olio, resina, pece o sego, in modo che essa possa essere modellata anche a freddo.

Il modello di cera finito, che corrisponde giá in tutti i dettagli all’idea che l’artista vuole ottenere con la fusione successiva, viene ora ricoperto di argilla fine inumidita. L’argilla viene poi lasciata asciugare e il tutto viene poi esposto a una temperatura di circa 500° C. Questo riscaldamento provoca la liquefazione della cera che puó fuoriuscire, cosí, attraverso i canali precedentemente realizzati nell’involucro di argilla; nello stesso tempo l’argilla cotta diventa una sorta di stampo cavo. Questo stampo viene infine riempito con metallo fuso e mantenuto immobile fino a quando il metallo si è solidificato.

Per rivelare l’oggetto colato, lo stampo deve infine essere rotto, il che significa anche che esso, quanto il modello stesso in cera, è perso [cioè inutilizzabile N.d.R.] per un ulteriore utilizzo. Per questo motivo, la tecnica di fusione ora descritta viene anche chiamata processo “a stampo perso”.

Per quanto riguarda il processo di “fusione a fuoco”, anch’esso praticato spesso nell’antichità, due alternative sono di particolare importanza per la produzione di icone di metallo.

Nella prima, che è esclusivamente adatta per i getti caratterizzati dal rilievo solo su un lato, il modello è preformato mediante un materiale facile da lavorare che mantiene la sua forma e viene poi impresso, per esempio, in argilla refrattaria. In alternativa, il modello può anche essere ricavato fin dall’inizio in negativo nel materiale destinato allo stampo (per esempio la pietra) ottenendo cosí uno stampo permanente (29).

La ricerca archeologica ha rivelato che, in realtà, in Russia, tali stampi di pietra erano utilizzati anche per la produzione di icone di metallo (30).

Dopo che, se necessario, lo stampo è stato rivestito con un agente distaccante, esso viene riempito con il metallo liquido: un coperchio di pietra, che poi chiude il tutto, assicura che la colata si raffreddi in modo uniforme impedendo così la formazione di crepe o deformazioni.

[Nella seconda alternativa], quando entrambi i lati del getto devono essere in rilievo, è necessario l’uso di una variante un po’ più complicata del processo di fusione a caldo: in questo caso, la composizione di uno dei due lati non può essere ottenuta solo premendo un coperchio opportunamente preparato sullo stampo riempito di metallo liquido. In questo caso è necessario uno stampo, ognuna delle quali deve contenere in negativo la composizione in rilievo desiderata. Per la fusione, entrambe le parti dello stampo (valve) sono unite in modo esatto e sepolte entro un letto di sabbia. Il metallo fuso viene versato attraverso il canale ricavato nelle due valve; questo deve essere abbastanza ampio da permettere all’aria, contenuta nello stampo, di uscire durante la colata.

Nel caso di getti grandi, è spesso necessario ricavare diversi canali per garantire che il metallo fuso sia distribuito uniformemente e che non si formino sacche d’aria.

In un modo corrispondente, in linea di principio, al processo di fusione sul fuoco, gli stampi permanenti in bronzo erano talvolta utilizzati per la produzione di icone di metallo. Tuttavia, essi erano utilizzati solo per i metalli il cui punto di fusione era molto inferiore a quello del bronzo. Tali materiali erano, per esempio, il piombo (che si liquefa già a 327° C) o lo stagno (che fonde a 231,8° C).

La figura XXV mostra la metà di un simile stampo permanente per la fusione di icone, sebbene si tratti di un esemplare non necessariamente di origine russa.

Indipendentemente dalla tecnica di fusione utilizzata, in ogni caso l’icona di metallo, dopo essere stata rimossa dallo stampo, richiedeva un’ulteriore lavorazione individuale. In molti casi la colata presentava ancora numerose bave e la sua superficie era solitamente coperta da uno strato ruvido e granulare, la cosiddetta pelle di colata. Inoltre, alcuni dei rilievi fusi mostravano difetti che, sempre che fossero riparabili, dovevano essere riparati.

E, ultimo ma non meno importante, le singole parti destinate alle icone con più ante dovevano essere preparate in modo tale da poterle poi unire senza difficoltà.

Per tutte le suddette correzioni, venivano usati strumenti per scalpellare e raschiare, così come lime e vari abrasivi, questi ultimi per levigare le facce e farle brillare.

Ulteriori miglioramenti qualitativi sono stati spesso ricercati utilizzando le tecniche della “cesellatura” e della incisione. Nella “cesellatura”, il rilievo in metallo veniva percosso e compresso con uno scalpello smussato, modificando così la sua forma; nell’“incisione”, il rilievo veniva scalfito con un bulino che ne sollevava e distaccava sottili schegge, permettendo di ottenere che anche i più piccoli dettagli della raffigurazione (come i tratti del viso, le pieghe delle vesti, gli ornamenti, le iscrizioni, ecc.) fossero messi in evidenza efficacemente sul pezzo fuso.

In molti casi, cioè quando non erano previste ulteriori finiture superficiali, la produzione di un’icona di metallo veniva completata con tali operazioni che, a volte, erano seguite dall’assemblaggio delle cerniere.

Qui non vogliamo considerare i “trattamenti finali” (che erano piuttosto comuni) come finiture superficiali a volte sotto forma di resina: infatti, l’applicazione di un rivestimento simile alla lacca serviva relativamente poco a decorare un’icona piuttosto che a proteggerla da influenze corrosive. Lo stesso vale per la “patinatura”, che a volte si otteneva con l’uso del “fegato di zolfo”. Se gli esemplari cosí preparati non sono dei veri e propri falsi, possiamo supporre che la patina prodotta artificialmente fosse semplicemente destinata a stabilizzare la tonalità desiderata del metallo nel lungo periodo.

D’altra parte, la smaltatura e – soprattutto nel caso delle versioni in bronzo – l’argentatura o la doratura di una fusione sono da considerarsi trattamenti di superficie veramente raffinanti (31).

Tra le varie possibilità di doratura, il metodo della “doratura a fuoco” era probabilmente il piú diffuso in Russia. In questo processo, un amalgama d’oro e mercurio viene applicato alla superficie da dorare. Sottoposto a una fonte di calore, il mercurio contenuto nell’amalgama evapora, mentre l’oro stabilisce una connessione superficiale abbastanza resistente con il supporto metallico.

Il processo di argentatura, o più precisamente di “argentatura a fuoco”, si realizza allo stesso modo ma con amalgama d’oro e mercurio.

Infine, rivolgiamo la nostra attenzione alla tecnica della smaltatura, così come è stata usata in particolare negli ultimi due o tre secoli, per la decorazione delle icone russe in metallo (32).

Come è noto, il principio della smaltatura consiste nel fondere ad alte temperature una massa di vetro per lo più colorata su un supporto metallico. La colorazione degli smalti si ottiene mescolando metalli o ossidi di metallo alla sostanza vetrosa, originariamente incolore. Per esempio, l’aggiunta di ossido di ferro provoca una tonalità rossa. Il blu si ottiene aggiungendo cobalto e il giallo si produce con l’aiuto dell’ossido di argento. Il verde si ottiene con l’aggiunta di ossido di rame, e una colorazione bianca si ottiene con l’ossido di stagno. In una certa misura, l’effetto di colore del substrato metallico da smaltare può influire sul risultato lavorando il flusso di vetro colorato come massa trasparente o rendendolo opaco con l’aggiunta di ulteriori additivi: nel primo caso si parla di smalto traslucido, perché lascia trasparire il substrato metallico; nel secondo caso si tratta del cosiddetto smalto opaco. Fra l’altro, a causa della sua viscosità, quest’ultimo tipo di smalto può essere applicato in diversi colori anche senza suddividere la superficie di metallo in “campi”, senza timore di mischiare i colori durante la cottura.

Nella smaltatura delle icone metalliche russe, è stato prevalentemente usato lo smalto opaco, che copre completamente il fondo metallico.

Prima che si possano fare i preparativi per il processo di smaltatura vero e proprio, il supporto metallico deve essere preparato per ricevere il vetro colorato fuso.

Due metodi fondamentalmente diversi possono essere considerati a questo scopo. Quale dei due deve essere usato dipende se la smaltatura deve essere effettuata per fusione di cellule o per fusione di pozzetti. Per quanto riguarda l’ornamentazione delle icone di metallo, la fusione a fossa, chiamata anche campione di smalto, in Russia ha avuto senza dubbio un uso predominante. Una peculiarità essenziale di questo processo è che solo la base piatta del rilievo è coperta da uno strato di smalto, mentre le parti della rappresentazione in rilievo mantengono inalterata la loro superficie metallica. Tuttavia, per assicurarsi che, con la smaltatura, l’icona non perdesse la sua struttura plastica [cioè il suo naturale rilievo N.d.R.], era generalmente necessario creare, nel modello di fusione, delle cavità più profonde di quanto sarebbe stato necessario per le icone di metallo sulle quali lo smalto non doveva essere applicato successivamente.

Nello stampo di colata era anche necessario fornire tutti gli incavi che dovevano poi ricevere lo smalto nel corpo di metallo. Anche se queste “fosse” avrebbero potuto essere scavate nella fusione finita con un bulino o una sgorbia; una tale procedura avrebbe significato, un considerevole lavoro aggiuntivo che, perciò, non è stato quasi mai praticato.

Se necessario, tuttavia, il fondo delle fosse veniva un po’ irruvidito per permettere allo smalto di aderire meglio il metallo. Una volta che il supporto metallico era stato preparato in questo modo, il lavoro di smaltatura vero e proprio poteva iniziare. A questo scopo, la massa di vetro, che era stata frantumata in piccoli pezzi e mescolata con gli additivi necessari (“fondenti” N.d.R.), doveva essere prima polverizzata e poi lavata. Questa polvere veniva poi applicata al pezzo da smaltare in uno stato secco o umido. Tuttavia, il rivestimento della sede [ricavata nel metallo delle icone] destinataria non doveva essere né troppo spesso né troppo sottile, altrimenti la superficie dello smalto avrebbe avuto un aspetto ruvido e poroso o addirittura bucherellato.

Dopo che il rivestimento di polvere di smalto si era asciugato, veniva cotto in un “forno a muffola”. A temperature di circa 800° C, il vetro fuso e il supporto metallico formano un legame straordinariamente forte, dopo un tempo più o meno breve. Tuttavia, poiché lo smalto perde molto volume durante la cottura, l’effetto decorativo desiderato non sarà sempre raggiunto dopo una sola cottura. Così, in qualche caso, la procedura di rivestimento e di cottura può dover essere ripetuta anche più volte.

Prima che un’icona di metallo smaltato potesse finalmente lasciare il laboratorio doveva ancora essere liberata dalla fiammatura e lucidata con i migliori abrasivi fino a raggiungere quella lucentezza che possiamo ammirare ancora oggi in molti esempi.


L’uso e l’invenzione di placchette presso la fonderia di bronzi De Levis a Verona.

di Mike Riddick

Versione italiana a cura di Alessandro Ubertazzi.

Giugno 2021.

Trattandosi di piccoli bassorilievi in bronzo o in altri metalli, le “placchette” sono state collezionate e apprezzate come opere d’arte autonome dal XV secolo in poi in Italia. Tuttavia, quei piccoli rilievi hanno avuto anche applicazioni ulteriori, tra cui il loro utilizzo nella decorazione di mortai, campane e altri oggetti d’uso, spesso finalizzati a incontrare il gusto artistico del pubblico.

La dinastia dei fonditori di bronzo De Levis a Verona ha impiegato una quantità di quei piccoli rilievi nella composizione delle loro opere, contribuendo cosí attivamente ad estendere un repertorio di modelli presi in prestito, copiati o espressamente inventati. Analogamente ad altre officine provinciali, la fonderia De Levis potrebbe essere stata determinante nella continua diffusione dei suddetti  modelli, sia riproducendo altrettante copie in bronzo o incorporandole nell’impostazione generale delle loro opere.

L’applicazione di placchette su oggetti d’uso in bronzo è parallelo alla riproduzione di monete antiche su tali oggetti. Ad esempio, la pratica di imprimere antiche monete si riscontra nell’ultima opera nota firmata Giuseppe De Levis: un mortaio del 1605 che si trova nella collezione Benjamin Zucker (1), una campana conservata presso il Virginia Museum of Fine Arts (2) ovvero ancora una base in bronzo per un crocifisso che rappresenta la collina del Calvario (3). L’uso delle monete intendeva probabilmente soddisfare il gusto degli acquirenti anche se la loro collocazione nella base che rappresenta il monte della Crocifissione intendeva verosimilmente aggiungere un “sentiment” romano a quell’oggetto.

Resta da ipotizzare come i piccoli modelli di monete o di placchette siano stati acquisiti da quella bottega provinciale. Tali modelli sono stati conferiti alle botteghe su commissione dei committenti o vi sono state trattative con i loro inventori per acquisire i diritti di utilizzarli? Quelle botteghe ne hanno loro stesse concepiti alcuni al loro interno o certi modelli erano apertamente condivisi e diffusi tra i vari operatori, senza riguardo agli inventori originali?

La risposta consiste, probabilmente, nella combinazione di queste diverse ipotesi mentre, a parte le attività svolte all’interno dell’opificio dei fonditori, l’arrivo di questi modelli nelle botteghe locali può essere dovuto agli spostamenti di pellegrini e di mercanti. A Verona, ad esempio, la tomba di San Pietro attirava molti pellegrini e mercanti dediti al commercio e forniva canali di scambio regolari in tutto il Veneto.

La diffusione delle placchette nel Rinascimento da parte di fonderie di bronzo è un argomento ancora in corso di approfondimento.

Olivier Ramousse e Bertrand Bergbauer hanno analizzato l’uso di placchette, monete, medaglie, distintivi dei pellegrini e altri piccoli oggetti decorativi presso i fonditori di bronzo di Lione, Le Puy-en-Velay e altre zone periferiche di Francia; essi hanno osservato come alcuni motivi fossero invenzioni regionali che godettero di una modesta diffusione mentre altri fossero stati importati da ambienti periferici come Germania e Italia, espandendo esplicitamente il loro repertorio espressivo.

Anche se italiana, la fonderia De Levis potrebbe non costituire un’eccezione a questa prassi. Un esempio è rappresentato dalle caratteristiche tedesche delle raffigurazioni di due putti, che richiamano le muse Euterpe e Thalia (4), riscontrabili su un mortaio firmato e datato da Giuseppe De Levis, commissionato da Petruterpeus de Loretis nel 1589 (fig. 1) (5). I putti sono riferibili al “Maestro dei putti del Municipio di Norimberga”, uno scultore influenzato da Peter Flötner e attivo nella bottega di Pankraz Labenwolf (6). L’ampia diffusione di questi motivi è confermata anche dal loro uso successivo sui mortai in Francia, come quelli forse di Pierre Buret della dinastia dei fonditori Buret che si ritiene attiva nelle vicinanze di Parigi (7).

L’arrivo di motivi ornamentali germanici presso le fonderie di bronzo italiane puó essere attribuito alla peregrinazione di apprendisti fonditori tedeschi che giungevano in Italia per acquisire conoscenza ed esperienza nel loro mestiere (8) o agli spostamenti di fonditori specializzati nel restauro di cannoni e campane oltre che nel produrre mortai per ottenere un reddito aggiuntivo in paesi stranieri (9). Ad esempio, i rilievi che rappresentano la Fede e la Giustizia del tedesco Flötner appare su un ciborio in bronzo del 1578 presso la chiesa di San Maurizio nel comune di Ponte in Valtellina, appena a Nord di Verona (10). L’uso dell’antimonio nei bronzi veneziani, incorporato per esaltare la risonanza delle campane, ha messo in contatto il Veneto con la Germania da cui l’antimonio era appunto esportato verso i fonditori veneziani (11).

La prassi dei De Levis di applicare i rilievi sugli oggetti d’uso è evidente nella seconda piú recente produzione nota: si veda la campana fusa da Santo De Levis per la chiesa di San Giuseppe in Bovolone nel 1572. Una descrizione cita la sua copia ovvero la riproduzione esatta di una Pietá concepita da Galeazzo Mondella (detto “Moderno”). Sebbene il Moderno abbia realizzato diversi rilievi di Pietá, la campana riproduce la sua più riuscita e ampiamente diffusa composizione raffigurante il Cristo Morto sorretto da Maria e Giovanni (fig. 2) (12). Il successo della composizione del Moderno e della sua attività nel Veneto, così come il suo incarico di presidente della corporazione degli orafi di Verona intorno al 1500, è motivo sufficiente per ipotizzare l’accesso di Servo all’opera di quell’Artista.

Un esempio del “prestito” di altri motivi si trova nella prima opera autografa conosciuta da Giuseppe De Levis: una campana da chiesa del 1576 conservata nella vecchia biblioteca presso il convento di San Bernardino a Trento (13). La campana é attorniata da cinque corone con vari motivi sacri ivi presenti insieme al busto di Cristo raffigurato di profilo entro una superficie circolare le cui fattezze originali sono di origine italiana (fig. 3, a sinistra) (14). Le caratteristiche della medaglia applicate sulla campana di Giuseppe De Levis forniscono peraltro un nuovo termine ante quem per la medaglia, come esemplare precedente della medaglia conservata nella raccolta di Maurice Rosenheim, datata 1583.

Il sottile rilievo della medaglia sulla campana di Giuseppe De Levis riproduce parzialmente il suo bordo di perline insieme all’iscrizione originale: EGO SVM VIA VERITAS ET VITA (fig. 3, a destra).

Divergendo dall’”appropriazione” di opere di altri artisti, il modello utilizzato nella sua fonderia imita invece la ben diffusa placchetta italiana che rappresenta la Vergine col Bambino (fig. 4, a sinistra), come osservato da Charles Avery (15). Tale rilievo compare sulla campana autografa della chiesa del 1624 realizzata da Paolo e Francesco De Levis per la comunità dei frati francescani del convento accanto alla chiesa della Madonna del Monte a Verona (fig. 4, a destra) (16). Lo stesso motivo compare anche su una campana del 1609 realizzata per la famiglia veronese Borgnolico attribuita alla bottega di Giuseppe De Levis e plausibilmente anche all’opera di Paolo e Francesco (17).

La placchetta della Vergine col Bambino, dalla quale il modello di Paolo e Francesco deriva, è ampiamente ritenuta opera della Scuola di Donatello o addirittura come un’opera perduta del Maestro, realizzata a Firenze o Padova nel secondo trimestre del XV secolo (18). Come suggerito per primo da Wilhelm von Bode, quel rilievo è stato anche associato a Giovanni da Pisa (19). Quella placchetta godeva di una discreta circolazione tanto che Francesco Rossi ne cita più di 50 esemplari in varie versioni (20). Un’applique variante della placchetta suggerisce il suo utilizzo entro paci e potrebbe anche essere stata utilizzata come modello per fonditori di campane e mortai. Per esempio, Jeremy Warren nota una campana del 1590 proveniente dalla bottega veronese di Giulio e Ludovico Bonaventurini che riproduce appunto quella composizione (21). Se pure Paolo e Francesco si sono ispirati direttamente alla placchetta per la loro versione della composizione, in alternativa possono averla presa in prestito da un rilievo del 1511 situato sulla facciata dell’Ospedale dei Poveri Sarti a Venezia, che Leo Planiscig ha ritenuto essa pure come ispirata dalla composizione di quella placchetta (22).

Un motivo simile di Vergine col Bambino situato su una campana di Servo De Levis del 1616 conservata al museo di Castelvecchio a Verona (23) può riguardare anche altre composizioni pisane come la Madonna col Bambino fra due candelabri a lui attribuite e che si trovano in Liechtenstein, a Berlino e altrove (24).

Per quanto riguarda le placchette come rilievi indipendenti, Giuseppe De Levis riproduceva direttamente rilievi in bronzo di grande scala. Un esempio significativo è il rilievo che rappresenta il Compianto (Lamento sul Cristo morto) fuso da Giuseppe De Levis o da suo fratello, Santo, nel 1577 (fig. 5, sinistra) (25). Sebbene in modo non convincente, il rilievo é spesso attribuito a Giovan Federico Bonzagna. Il compianto e la sua affine Natività, più nota, sono più probabilmente invenzioni di uno scultore attivo tra l’Italia e la Spagna ovvero forse di uno dei non identificati scultori italiani o iberici attivi sotto l’influenza di Giovanni da Nola, autore dei pannelli scolpiti in legno situati nella sagrestia della Santissima Annunziata Maggiore a Napoli (26).

Un grande rilievo di Deposizione è stato anche riprodotto da Giuseppe De Levis (fig. 5, a destra). Quel rilievo è comunemente attribuito a Guglielmo della Porta, sulla base di suoi disegni contenuti nel Taccuino di Düsseldorf; tuttavia, più recentemente, Avery (e questa è anche la mia opinione) ha attribuito in modo più convincente il rilievo ad Alessandro Vittoria (27).

La qualità di questi due rilievi di grandi dimensioni suggerisce che si tratti di copie tardive, derivate da modelli originali più fini. Entrambi sono noti attraverso molteplici copie ed esemplari di periodi successivi e sono stati riprodotti in bronzo, cartapesta e stucco, a testimonianza della loro ampia diffusione e della riproduzione da parte di vari laboratori.

Mentre gli antenati della fonderia De Levis, Santo e suo fratello Giuseppe, sembrano avere liberamente copiato rilievi esistenti, grandi e piccoli, ovvero che si siano affidati a scultori locali come Angelo de Rossi (28), i loro figli sembrano aver mostrato maggiore propensione ad inventare direttamente le loro composizioni. In particolare, come ipotizzato da Avery (29), il figlio di Santo, Ottavio, potrebbe avere dimostrato talento scultoreo e abilità fusoria nelle sue originali invenzioni.

La placchetta firmata da Ottavio di una Vergine col Bambino in piedi a mezza figura (30) è autografata lungo la sua base e presenta le “armi” del suo possessore (fig.6, in alto). Avery ha riscontrato la sua apparente influenza da parte della scuola veneziana di Jacopo Sansovino analogamente all’esemplare scontornato che si trova a Berlino (31) che era stato precedentemente giudicato nello stesso modo da Bode (32) ed Ernst Bange (fig. 6, in basso) (33).

In realtà, l’esempio scontornato di Berlino potrebbe rappresentare il ruolo avuto dagli stampi della bottega. Anche se manca il lato sinistro del cuscino che sostiene il piede di Cristo bambino e mancano altresì alcuni dei drappi distesi lungo il suo margine sinistro, è evidente che Ottavio ha originariamente impiegato un modello scontornato simile e, per realizzare la sua placchetta autografa, lo ha premuto su una superficie piana. La cornice della placchetta prodotta da Ottavio sembra ricavata da uno stampo atto a ottenerne il contorno ornato più o meno allo stesso modo con cui venivano realizzate le decorazioni impiegate negli stampi per la fusione dei mortai. Il fatto che Ottavio abbia firmato con orgoglio il verso di questa placchetta è più indicativo del fatto che si tratta di un’opera originale piú che il marchio di un fonditore e quindi essa può effettivamente costituire un’invenzione originale del fonditore.

Un’altra placchetta raffigurante la Vergine col Bambino, sita al Louvre (fig. 7), e che Avery attribuisce a Ottavio, è riconosciuta come unica fusione (34). Essa rientra in ambito provinciale veneziano come notato per primo da Bertrand Jestaz (35). Avery richiama l’attenzione sul gruppo di figure centrali i cui modi e la cui sagoma di forma ovoidale sono paragonabili a quelli della placchetta dello stesso soggetto firmata da Ottavio (36).

Oltre all’influenza di Sansovino sui due rilievi sopra indicati, resta anche la contemporanea influenza del successore di Sansovino: Niccolò Roccatagliata. In qualche caso, il lavoro di questo scultore e le produzioni della famiglia De Levis sono state confuse con il lavoro dei discepoli (37).

Mentre esistono evidenze relative alla produzione di rilievi in bronzo di grandi dimensioni da parte della famiglia De Levis, nel caso di rilievi di dimensioni piccole non sono disponibili prove certe. Tuttavia, un’ottima conferma per questa ipotesi si trova nell’attenzione posta da Avery su un rilievo che rappresenta la Trinitá (38) che compare nella campana di Paolo e Francesco del 1617 e che si trova al Museo di Castelvecchio di Verona (39): esso raffigura la Trinitá (fig. 8, in alto) assieme ai rilievi della Vergine dell’Immacolata Concezione (40) e di Santa Lucia (41) e alla firma dei fratelli (fig. o9 a destra), ciascuno posto all’interno della stessa cornice stilizzata che apparve in precedenza nella coppia di alari in bronzo realizzata dal padre che si trova presso il Victoria and Albert Museum e (42) e su un mortaio da lui datato 1600 nella collezione Vok.

L’uso di questa cornice stilizzata da parte di Giuseppe De Levis non comprende motivi figurativi ma invece presenta la sua firma: IOSEPHO DI LEVI IN VERONA MI FECE (fig. 9, a sinistra).

Piuttosto che un semplice modello della bottega, questa cornice potrebbe essere stata utilizzata come un segno distintivo della famiglia che, perciò, ha incoraggiato il suo uso da parte dei figli di Giuseppe De Levis.

Le migliori fusioni di placchette che rappresentano la Trinitá mostrano sul rovescio come il rilievo centrale sia stato fuso partendo da un preesistente modello di cornice.

Avery descrive lo stile di questa cornice come quello tipico del Veneto e le sue caratteristiche corrispondono con quelle delle appliques della lampada Hanukkah attribuita alla fonderia De Levis (43). Questo fatto suggerisce che le figure centrali presenti in questi rilievi incorniciati possano essere opera di Angelo de Rossi collaboratore di Giuseppe De Levis o, più plausibilmente, opera del figli di Giuseppe, Paolo e Francesco.

Il tema della Trinitá entro la sua cornice stilizzata è conosciuto in una grande quantità di esemplari sopravvissuti sotto forma di placchette indipendenti. Nonostante la sua popolarità, il rilievo non ha consentito di comprendere la sua funzione. Esso è stato considerato come possibile “applique” destinata a rilegature di libri sebbene esemplari usati in questo modo non siano stati trovati. Quel rilievo è stato generalmente considerato nord italiano mentre associazioni con il Veneto sono state avanzate da Rossi: egli suggerisce che la sua invenzione sia dovuta a uno scultore attivo nella cerchia di Girolamo Campagna (44).

Come suggerisce Avery, la funzione più probabile per la placchetta che rappresenta la Trinitá era quella di costituire il modello per campane e mortai; essa appare almeno su un mortaio francese in bronzo del XVII secolo inedito (Bergbauer, messaggio di posta elettronica all’Autore, maggio 2014), ma il suo primo e più frequente uso presso la famiglia De Levis suggerisce un’origine logica presso la loro fonderia. È ragionevole ipotizzare che la diffusione di questa placchetta possa anche essere dovuta a riproduzioni realizzate all’interno della stessa fonderia, soprattutto se si considera che la cornice collega intrinsecamente la composizione e la placchetta di De Levis grazie alla cornice-“firma”, che funge come una sorta di marchio di fabbrica (45).

L’ampia diffusione della placchetta della Trinitá comportò variazioni successive come esemplari scontornati ed edizioni del periodo barocco prive di cornice ma completate da santi inginocchiati a Dio Padre (46).

Citato anche nella letteratura precedente è un esemplare presente nella collezione Georg Heinrici: essa reca inscritto il testo CONFRATERNITAS SANTAE TRINITATIS (fig. 8, in basso) (47) che ha indotto Jestaz a collegare la placchetta con la Confraternita della Trinitá una volta attiva in una chiesa e in un convento a Venezia, distrutti nel 1631 per erigere la basilica di Santa Maria della Salute (48).

Occorre ricordare che la prima opera autografa di Paolo De Levis, la campana che egli ha realizzato per la cappella di quella stessa confraternita a Verona nel 1611 (49), rende verosimile il collegamento tra la commissionata origine della placchetta della Trinità e la ipotizzata invenzione attribuita a Paolo e Francesco.

Fino ad Avery, la presenza del rilievo sulle campane non era menzionata in nessun precedente saggio sulle placchette. Altrettanto non riferita è la sua presenza su altri oggetti tardi come in una brocca per l’acqua in peltro del XVIII secolo conservata in una collezione privata francese (Bergbauer, messaggio di posta elettronica all’Autore, luglio 2015), come le versioni in cui il motivo della Trinitá è impresso integralmente su paci (50) e come il caso in cui una fusione tardiva in argento è applicata alla base di una croce d’altare italiana del tardo XVII secolo (51). Esiste infine una ulteriore variante successiva del rilievo in cui l’aureola triangolare applicata a Dio Padre interrompe la cornice decorativa sopra la sua testa (52).

Molto meno frequenti del motivo della Trinitá, e non citati da Avery, sono le raffigurazioni di altre composizioni realizzate senza la cornice della placchetta della Trinitá, includendo una scena con Angeli che presentano l’ostia, conosciuta nell’unica fusione conservata presso il castello d’Ecouen (53), l’inedita Vergine in piedi col Bambino nella collezione di Sandro Ubertazzi (54) e il Cristo addolorato all’Ashmolean Museum (55). Per quanto concerne questo ultimo rilievo, la fonte che ha ispirato la sua concezione puó essere stata la piú comune placchetta di Ecce Homo o Imago Pietatis realizzata circa nel 1500.

Da segnalare è una variante della placchetta di Imago Pietatis come pace sormontata da una maschera centrale affiancata da grottesche: Avery suggerisce che potrebbe trattarsi di un’edizione aggiornata di quella realizzata da un membro della famiglia De Levis (10). Egli confronta le grottesche e la maschera centrale con il battente in bronzo realizzato da Servo e dai suoi fratelli Giovan Battista e Ottavio per la famiglia Compagnoni di Mantova (57). Anche se Avery nota marginalmente due esemplari di questa pace come provenienti da vicina a Verona, la sua osservazione potrebbe avere il merito di evidenziare l’elevata ricorrenza di esemplari di placchette di Imago Pietatis che compaiono in manufatti presso chiese a Sud di Verona e a Ferrara, a Faenza e in altre città vicine. Ciò corrisponde alla suggestione formulata di Jestaz che il prototipo di questa pace discenda eventualmente da un dipinto conservato a Faenza (58) e alla considerazione di Rossi che le varianti della placchetta di Imago Pietatis si siano sviluppate principalmente in Veneto (59).

Se l’osservazione di Avery é attendibile, i De Levis sarebbero responsabili di questa versione della pace Imago Pietatis, quindi si tratterebbe di un raro caso in cui possiamo collegare la storia del successivo abbellimento di una placchetta con la successiva attivitá di una fonderia provinciale (60).

Nell’osservare l’uso e la funzione delle placchette presso la fonderia della famiglia De Levis acquisiamo una conoscenza più profonda e la continua conferma riguardante le pratiche operative delle fonderie di bronzo locali, tipiche della loro epoca: ripetitive nelle loro pratiche e tuttavia, occasionalmente intraprendenti e originali nel servizio reso ai committenti locali.

Note.

1.
Charles Avery, Joseph De Levis & Company, Renaissance Bronze-founders in Verona [Giuseppe De Levis & C., fonditori di bronzo rinascimentali a Verona], (London, UK: Philip Wilson, 2016), n. 82, pag. 152.
2.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company [Giuseppe De Levis & Company], n. 81, pag. 152.
3.
MET Inv. 1981.76b; cfr. anche Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 43, pagg. 133-134.
4.

Ingrid Weber, Deutsche, Niederländische und Französische Renaissanceplaketten, 1500-1650 [Plachette tedesche, olandesi e francesi del Rinascimento 1500-1650], (München, Germany: Bruckmann, 1975), nn. 71.2 e 71.8.

5.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 25, pag. 58.
6.
Meister des Nürnberger Rathausputto (Maestro dei Putti del Municipio di Norimberga) è uno scultore cosí identificato per le sue figure che coronano le colonne della fontana nel cortile del Municipio della città di Norimberga, fuse nel 1557 da Pankraz Labenwolf.
Cfr. Andrea Norris e Ingrid Weber, Medals and Plaquettes from the Molinari collection at Bowdoin College [Medaglie e placchette della collezione Molinari al Bowdoin College] (Brunswick, ME: Bowdoin College, 1976), pag. 107.
7.
Pierre Buret, che divenne maestro nel 1680, si ritiene che sia il probabile inventore di una serie di mortai che fanno uso di questi rilievi. Questi mortai si trovano presso il castello Fontenay-le-Comte di Newbondland, presso il Museo Dobrée a Nantes (Inv. 903.142) e, uno, nella collezione Lafond a Parigi.
Cfr. Bertrand Bergbauer, Les Mortiers Francais en Bronze du XVI au XVIII siécle: production, iconographie et diffusion [I mortai francesi in bronzo dal XVI al XVII secolo; produzione, iconografia e diffusione], Tomi I-III (PhD diss., Université de Picardie Jules Verne, 2012), Tomo II, nn. A1909-1910, pagg. 672-677, 698-699.
8.
Vedi, ad esempio, Pankraz Labenwolf (che si pensa abbia soggiornato in Italia) o Peter e Hermann Vischer della dinastia dei fonditori Vischer (che é confermato o si ritiene abbiano viaggiato in Italia per i loro “Wanderjahre”).
Cfr. Georg Seeger, Peter Vischer der jüngere: ein Beitrag zur Geschichte der Erzgiesserfamilie Vischer [Peter Vischer il giovane: contributo sulla storia della dinastia della famiglia di fonditori Vischer] (Lipsia, Germany: E.A. Seemann, 1897), pagg. 6-13, 142; Johann Neudörfer (1547): Nachrichten von den vornehmsten Künstlern und Werkleuten so innerhalb hundert Jahren im Nürnberg gelebt haben 1546 nebst der Fortsetzung von Andreas Gulden 1660. Abgedruckt nach einer alten Handschrift in der Campeschen Sammlung [Notizie dei piú significativi artisti e artigiani che sono vissuti in cent’anni circa, dal 1546 al 1660, in prosecuzione di Andreas Gulden. Ció si evince da un antico manoscritto che si trova nella collezione Campeschen] (Ed. G.W.K. Lochner, Wien, Austria, 1875), pag. 21; Michael Riddick, The Earliest German Medal? Peter Vischer der Ältere’s Memorial Medaille to his first wife Margaretha [La prima medaglia tedesca? Medaglia-ricordo di Peter Vischer il vecchio per la sua prima moglie Margaretha] (accesso ottobre 2020). Renbronze.com.
9.
Klaus Bergdolt, Hochwichtige Mörtel aus der Sammlung Schwarzach [Un mortaio molto importante nella collezione Schwarzach], catalogo (Cologne, Germany: Lempertz 17 may 2019), pagg. 94-95.
10.
Susanna Zanuso, Medaglie e placchette nel ciborio della chiesa di San Maurizio a Ponte in Valtellina in “L’utilizzo dei modelli seriali nella produzione figurativa lombarda nell’età di Mantegna”. Atti del convegno di studi Milano, Castello Sforzesco, Raccolta delle Stampe, 10-11 Giugno 2008, eds.Marco Collareta e Francesca Tasso (Milano, Italia: Castello Sforzesco, 2012), pagg. 197-270.

11.
Peta Motture, The Culture of Bronze. Making and Meaning in Italian Renaissance Sculpture [La cultura del bronzo. Produzione e significato nella scultura del Rinasci-mento italiano] (London, UK: Victoria & Albert Museum, 2019), pag. 24.

12.
Oltre a più di 300 esemplari del rilievo in bronzo e altri metalli (comprese copie inter-pretative libere) si conoscono ulteriori esemplari di libere copie in maiolica (asta Hampel cat. [Münich, Germany, 17 May 2003] n. 147), terracotta (Cambiaste, catalogo dell’asta [Milano Itala, 18 novembre 2015], n. 70), e pietre preziose (Ermitage Museum, Inv. K-684).

13.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 4A, pagg. 112-113.

14.
Chiara Moser ha commentato la caratteristica di queste immagini sacre, comprese quelle di Santa Caterina d’Alessandria, Sant’Uberto e una Vergine col Bambino che compaio-no su altre campane piú tarde e sui mortai.
Cfr. Chiara Moser, Giuseppe De Levis e l’arte del bronzo a Verona nel secondo Cin-quecento (PhD diss., Universitá degli studi di Trento, Facoltá di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Magistrale in Conservazione e Gestione dei Beni Culturali, 2010).

L’effigie di Cristo, non attribuita ma di probabile origine longobarda è stata discussa più di recente da Philip Attwood.
Cfr. Philip Attwood, Italian Medals c.1530-1600 (London, UK: British Museum Press, 2002), n. 196.

Le origini italiane della medaglia sono delineate da George Francis Hill.
Cfr. G. F. Hill, The medallic portraits of Christ, The false shekels, The thirty pieces of sil-ver [Le medaglia con l’effige di Cristo, I falsi sicli e I trenta denari d’argento (Oxford, Clarendon Press, 1920), pagg. 65-66.

15.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, pag. 55.

16.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 65, pag. 143.

17.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, no. 70, p. 146. La campana del 1609, non firmata, per la famiglia Bognolico potrebbe essere attribuita a Paolo e Francesco De Le-vis.
La prima opera firmata di Paolo De Levis, ora perduta, era datato 1611, realizzata per la Confraternitá della SS. Trinitá presso la cappella di San Biagio a Verona. Avery: Joseph De Levis & Company, 2016 nn. 56-57, pagg. 140.

18.
Mentre inizilmente la placchetta che rappresenta la Vergine col Bambino era più fre-quentemente considerata della metà del XV secolo, Bertrand Bergbauer ha notato due oggetti di maiolica realizzati a Gubbio (circa 1430-1440), che riproducono il motivo della placchetta: ció suggerisce una data di origine che risalirebbe al secondo trimestre del quindicesimo secolo.
Cfr. Bertrand Bergbauer, Images en relief: la collection de plaquettes du Musée national de la Renaissance [Immagini in rilievo: la collezione del Museo Nazionale del Ri-nascimento] (Paris, France: Réunion des musées nationaux, 2009), pagg. 13-14. Per gli esemplari in maiolica cfr. Louvre Inv. OA 1474 e Sothebys, catalogo dell’asta. (London, UK, 6 Dicembre 2011), n. 1.

19.
Wilhelm von Bode, Beschreibung der Bildwerke der Christlichen Epochen: Die Italie-nischen Bronzen [Descrizione delle sculture dell’epoca cristiana: i bronzi italiani] (Berlin, Deutchland: Königliche Museen zu Berlin, 1904), vol. II, pag. 55, n. 671.
L’associazione di questa placchetta con l’opera di Giovanni da Pisa è persistita negli ultimi anni da parte di Francesco Rossi che vi nota sottili riferimenti ai suoi modi.
Cfr. Francesco Rossi, Placchette e rilievi di bronzo nell’età del Mantegna, Mantova e Milano (Milano, Italia: Skira, 2006), pp. 38-39, n. 1.

Bode aveva inizialmente attributo la placchetta a Bartolomeo Bellano.
Cfr. Wilhelm von Bode, Lo Scultore Bartolomeo Bellano da Padova, Archivio storico dell ‘Arte IV (1891), pagg. 397-416.

Per una ulteriore discussione sulla possibile influenza che Bode suggerisce di Giovanni da Pisa, cfr. Michael Riddick Donatello, the birth of Renaissance Plaquettes and their representation in the Bode Museum [Donatello, la nascita della placchetta rinascimentale e gli esemplari che si trovano nel Museo Bode] (manoscritto inedito, Predella Journal of visual art, 2021).

20.
Francesco Rossi, La Collezione Mario Scaglia - Placchette, Voll. I-III. (Bergamo, Italia: Lubrina Editore, 2011), n. II.1, pagg. 75-77.

21.
La campana è stata realizzata per San Rocco in Quinzano ed è attualmente conservata presso il Museo del Castelvecchio di Verona. Jeremy Warren, Medieval and Renaissance Sculpture in the Ashmolean Museum, Vol. 3: Plaquettes [Sculture medioevali e rinasci-mentali nell’Ashmolean Museum, vol. 3, placchette] (London, UK: Ashmolean Museum Publications, 2014, 2014), nn. 270-71, pagg. 808-10.

22.
Leo Planiscig, Die Estensische Kunstsammlung: Katalog, mit den Abbildungen sämtli-cher Stücke [La collezione estense: catalogo con la rappresentazione di alcune opere] (Wien, Austria: Anton Schroll & Co., 1919), n. 339, pag. 174.

23.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, no. 50, pag. 137.

24.
Inv. SK 133. Cfr. Francesco Caglioti, Andrea Mantegna, catalogo della mostra (Paris: Musée du Louvre, 26 September 2008-5 January 2009) pagg. 88-91.
Cfr. anche Berlin Inv. 2949 e Neville Rowley, Madonna in der Nische / Virgin and Child Relief und Rahmen [Madonna nella nicchia / Rilievo di Vergine con il Bambino entro cornice] consultato nell’ottobre 2020. SMBdigital. e.

25.
Un difetto di fusione sul retro di questa placchetta presenta la cornice-“firma” e la data della fonderia De Levis ma la firma è purtroppo illeggibile. A proposito della data del 1577, Avery osserva che essa é la prima opera datata di Joseph o la terza opera cono-sciuta di suo fratello Santo.
Cfr. Avery (2016): Joseph De Levis & Company, no. 44, pag. 134.

26.
Michael Riddick, An Adoration and Lamentation of Iberian-Italian origin [Una Adora-zione e un Compianto sul Cristo morto di origine iberico-italiana] consultato nell’ottobre 2020. Renbronze.com.

27.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 45, pag. 135.

28.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, pagg. 84-88.

29.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, pagg. 11, 98-99.

30.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 50, pag. 137.

31.
Berlin Inv. 291.

32.
Bode (1904): Die Italienischen Bronzen [I bronzi italiani], n. 440, pag. 29, tavola XXXIII.

33.
Ernst Bange, Die Italienischen Bronzen der Renaissance und des Barock, Zweiter Teil: Reliefs und Plaketten [I bronzi italiani rinascimentali e barocchi, seconda parte: rilievi e placchette] (Berlin und Leipzig, Germany: Walter de Gruyter, 1922), n. 31, pag. 6.

34.
Louvre Inv. OA 10418.

35.
Bertrand Jestaz, De Nouveaux Bronzes Italiens in La Revue Du Louvre et des Musées de France [Alcuni nuovi bronzi italiani nella Rivista del Louvre e dei musei di Francia] (Parigi, Francia, 1974), n. 2, pagg. 91-93.

36.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 110, pagg. 171-172.

37.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, pagg.31, 82.
 
38.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 62, pagg. 142-143.

39.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 61, pag. 142.

40.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 63, pag. 143.

41.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 64, pag. 143.

42.
Victoria and Albert Museum, Invs. 3011: 0a 8-1857 e 3012: da 1 a 9-1857.

43.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, nn. 111-116, pagg. 172-175.

44.
Francesco Rossi, Placchette. Sec. XV-XIX (Vicenza, Italia Neri Pozza Editore, 1974), no. 161, pagg. 107-108.

45.
Future analisi XRF delle migliori fusioni di queste placchette potrebbero aggiungere credibilità a questa idea e confrontarla con i dati raccolti dalla coppia di alari di Giu-seppe De Levis al Victoria & Albert Museum

46.
Una volta si pensava che questa unica variante con i santi aggiunti fosse conosciuta co-me unica fusione situata nella collezione Heinz Schneider (pubblicata in William Wixom, Renaissance bronzes from Ohio collections [Bronzi del Rinascimento nella collezione dell’Ohio], (Cleveland, OH: Cleveland Museum of Art, 1975) ma sono stati trovati altri esemplari come uno nella collezione di Sandro Ubertazzi (Ubertazzi, messaggio di posta elettronica all’Autore, Febbraio 2017) e un altro integrato in una pace tardiva presente in una chiesa non identificata della Dioecesi di Vigevano. Una ulteriore versione con santi si trova anche nel Museo Civico di Belluno (Jestaz [1997], cfr. nota 49).

47.
Adolph E. Cahn auction cat., (Frankfurt am Main, 7-8 December 1920): Sammlung Geh. Rat Prof. Dr. Heinrici, Leipzig. Medaillen u. Plaketten der Renaissance [Collezione del chiarissimo professor Heinrici a Lipsia: medaglie e placchetete del Rinascimento], n. 132, pag. 19. Cfr. anche Hampel, auction cat. (Münich, Germany, 15 September 2011), n. 606.

48.
Bertrand Jestaz, Catalogo del Museo Civico di Belluno: Le Placchette e I Piccoli Bronzi, Belluno (Belluno, Italy, Neri Pozza, 1997), n. 65, pag. 83.

49.
Cfr. Nota 17.

50.
Un esemplare di questa pace, la cui cornice è sagomata nello stile del XVII secolo era nella collezione Carnevali di Brescia (Carnevali, messaggio di posta elettronica all’Autore, settembre 2015) e un altro era già di questo Autore (Christie’s auction, cat. Asta [Amsterdam, 30 Luglio 1997]).

51.
Hampel, auction cat. (Münich, Germany, 30 March 2017), n. 135.

52.
Già nella collezione Edward Lubin (pubblicata su Wixom [1975]: Renaissance  bronzes from Ohio collections e ora nella collezione di Carol Shaw. Questa stessa versione è il tipo che appare anche sulla brocca in peltro del XVIII secolo (Bergbauer, messaggio di posta elettronica all’Autore, luglio 2015).

53.
Bergbauer (2006): Images en relief [Immagini in rilievo], n. 106, pag. 110. Chateau d’Ecouen Inv. E Cl. 20053.

54.
Il n. 168 di Sandro Ubertazzi (messaggio di posta elettronica all’Autore, February 2017). Questa placchetta è stata realizzata da una fonderia locale tarda che prende in prestito la cornice nello stile De Levis.

55.
Warren (2014): Medieval and Renaissance Sculpture in the Ashmolean Museum, Vol. 3: Plaquettes [Sculture medioevali e rinascimentali all’Ashmolean Museum], n. 411, pagg. 945-56.

56.
Anche questo motivo è liberamente copiato da Servo De Levis su una campana del 1587. Cfr. Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 7, pag. 114.

57.
Avery (2016): Joseph De Levis & Company, n. 49, pagg. 136-137.

58.
Jestaz (1997): Le Placchette e i Piccoli Bronzi. Belluno, n. 64, pag. 82.

59.
Rossi (2011): Placchette, Vols. I-III, nn. III.9-10, pagg. 112-15.

60.
Si è appurato che le fonderie locali hanno spesso riprodotto e abbellito precedenti plac-chette, sebbene le loro modifiche siano raramente riconducibili a fonderie responsabili della sistematica diffusione di modelli particolari.



Didascalie.

Fig.01.
Particolare di un mortaio in bronzo realizzato da Giuseppe De Levis, 1589, con putti tratti dalle placchette del Meister des Nürnberger Rathausputto (Maestro dei Putti del Municipio di Norimberga), che affianca le “armi” di Petruterpeus de Loretis, Kunstmu-seum di Düsseldorf.
 
Fig.02.
Moderno, Cristo morto sorretto da Maria e Giovanni, ca. 1500; placchetta in bronzo, National Gallery of Art.

Fig. 03.
Busto di Cristo, particolare di campana in bronzo realizzato da Giuseppe De Levis, 1576, nel convento di San Bernardino a Trento (a sinistra); Busto di Cristo, di anonimo, prima del 1576, medaglia in bronzo, British Museum (a destra).

Fig.04.
Madonna col Bambino, cerchia di Donatello, forse Giovanni da Pisa (?), circa 1440, placchetta in bronzo presso il Bode Museum (a sinistra); Vergine col Bambino, partico-lare di campana in bronzo, realizzato da Paolo e Francesco De Levis nel 1624, nel con-vento presso la chiesa della Madonna del Monte a Verona (a destra).

Fig.05.
Lamento / Compianto sul Cristo morto, cerchia di Giovanni da Nola, realizzato da Servo o Giuseppe De Levis, 1577, placchetta  in bronzo, nel Museo Civico di Ferrara (a sinistra); Deposizione, attribuita ad Alessandro Vittoria, fusione di Giuseppe De Levis, fine XVI secolo, placchetta in bronzo, nei Musei di Berlino (a destra).

Fig.06.
Madonna con Bambino in piedi, placchetta in bronzo realizzata da Ottavio De Levis, circa 1600, nella collezione privata di Daniel Katz (in alto). L’applique Vergine col Bambino in piedi, circa 1600, nei Musei di Berlino (in basso).

Fig.7.
Madonna col Bambino, placchetta in bronzo attribuita a Ottavio De Levis, circa 1600, Louvre.

Fig. 8.
Particolare della campana in bronzo che rappresenta la Trinità, Paolo e Francesco De Levis, 1617, Museo di Castelvecchio a Verona (in alto); Trinità, placchetta in bronzo attribuita a Paolo e Francesco De Levis, collezione privata, già nella collezione Georg Heinrici (in basso).

Fig. 9.
Particolare di un mortaio in bronzo con la firma di Giuseppe De Levis, 1600, nella col-lezione Vok a Padova (a sinistra); particolare di campana in bronzo con la firma di Paolo e Francesco De Levis, 1617, nel Museo di Castelvecchio a Verona (a destra).

Fig.10.
Imago Pietatis, pace in bronzo attribuita a Ottavio De Levis e / o ai suoi fratelli, circa 1600, derivata da un’opera anonima, circa 1500, Museo Civico Amedeo Lia a La Spezia.
    

    

La maschera del male; la fisionomia grottesca come contro-immagine del sacro e del perfetto nell’arte del XV e XVI secolo.

di Christine Winkler

Versione italiana delle prime 63 pagine di “Die Maske des Bösen; Groteske Physiognomie als Gegenbild des Heiligen und Volkommenen in der Kunst des 15 und 16 Jahrhunderts”, Beiträge zur Kunstwissenschaft, Bd. 8, München, 1986.

A cura di Alessandro Ubertazzi.

Marzo 2021.

1.

Introduzione.

Le medaglie “a due teste” sono l’oggetto di questo lavoro. Anche se esse non sono assolutamente da considerare come casi isolati o fenomeni casuali (dal momento che si sono diffuse a livello internazionale); la letteratura le ha finora trattate solo raramente e non è giunta al di là di una classificazione formale di “monete nel campo della satira riformista”. Pertanto, si cercherà ora di definirle più precisamente per quanto riguarda la loro origine, il loro significato e i loro aspetti artistici.

Si tratta del concetto di “brutto” nell’arte del XV e XVI secolo, delle sue giustificazioni iconografiche, storico-religiose e artistiche e delle sue contro-immagini: il sacro, il perfetto. In tal senso, gli scritti originali, che hanno accompagnato nel tempo il cambiamento nella interpretazione del brutto nell’arte pittorica, sono stati esaminati per comprendere le espressioni estetiche in relazione al sacro e al brutto e confrontati con lo studio sui monumenti. In realtà, tali considerazioni sono servite come prerequisito necessario per distinguere tra l’aspetto teologico e la visione artistica che, per quanto riguarda la connessione tra il sacro e il brutto, che si è sviluppato nel periodo umanistico.

In questo contesto, le rappresentazioni della satira sviluppatesi all’interno della Riforma saranno approfondite nelle immagini capovolte sulle medaglie in quanto sottolineano l’ambiguità dell’uomo e soprattutto della condizione spirituale di quel tempo.

La diabolica molteplicità di volti animali o umani che comprende le opere dell’arte lapidaria greco-romana, è servita allo stesso scopo: in realtá, le connessioni tra l’uomo e l’animale, già note dalle ricerche fisiognomiche dell’antichità e che si ritrovano giá nelle favole di animali e nelle drolleries medievali, riprendono il tema della codificazione dei caratteri umani.

Le “creature miste” non furono finalizzate solo da Lutero e Melantone in pamphlets contro il papato e il monachesimo ma furono anche usate dalla parte cattolica come strumento di lotta per ridicolizzare il nemico. Tali critiche sono spesso riferite a parabole cristiane o associate a eventi e persone della storia biblica, così che le lamentele evidenziate nelle rappresentazioni si riferiscono spesso a profezie divine per l’avvento del Giudizio Universale.

Come ulteriore variante all’interno del motivo delle “creature miste”, il papa è stato visto come un “uomo selvaggio”. Inoltre, le facce costituite dagli oggetti piú diversi (secondo lo stile di Arcimboldo) servivano allo scopo di deridere gli antagonisti. La stessa tendenza è stata seguita da quelle rappresentazioni che descrivevano l’avversario non con una mescolanza di animale e umano ma con la distorsione dei tratti umani naturali.

Lo scopo di questo lavoro non è stato quello di riproporre la storia sufficientemente nota della Riforma, né di discutere la tipologia della battaglia mediante le immagini di quel tempo in tutti i suoi dettagli ma di mostrare le varie relazioni tra il sacro e il brutto per mezzo di casi esemplari, al fine di comprendere il ruolo del grottesco, nella misura in cui si trova in connessione con il sacro e il perfetto.

Per chiarire i vari punti di partenza, i presupposti e le intenzioni della rappresentazione della bruttezza e della distorsione della fisionomia umana e le sue contro-immagini, sono state selezionate opere di Leonardo da Vinci, Dürer, Grünewald e, in maniera particolarmente dettagliata [è stato indagato], il mondo pittorico di Bosch come rappresentativo della creazione artistica in Italia, Germania e Olanda. Nella loro ricerca di una nuova visione del mondo, tutti i suddetti artisti si sono ugualmente ispirati alla natura dei tratti del viso o, in un senso più ampio, al modellamento dell’intero corpo umano e delle sue parti come riferimento fisico per il carattere spirituale dell’anima e del carattere.

Tuttavia, come sarà dimostrato, le loro rappresentazioni (che non possono assolutamente essere intese dall’osservatore come semplici immagini di paura) si basano sui punti di vista più diversi.

Dato che la contro-figura delle fisionomie grottesche si rivela per la prima volta nella figura di Cristo, la letteratura che tratta la sua figura e il problema estetico della bellezza costituiscono la fonte più importante di quelle immagini. Per quanto riguarda la figura di Cristo, occorre ricordare che gli scritti dei più antichi Padri della Chiesa (come quelli di Sant’Agostino ma anche le opinioni di Tommaso d’Aquino) erano ancora condivise da Suarez nel XVI secolo: occorre infine ricordare la svalutazione stoica del bello, discussa dagli apologeti cristiani. Fra i pensatori delle antiche dottrine sono ancora da citare Agostino e Dionigi Pseudo-Areopagita, oltre all’alta estetica scolastica che costituisce la base della estetica cristiana.

Indipendentemente dai diversi punti di vista degli artisti, Cristo si rivela nella perfezione della sua rappresentazione come antitesi delle fisionomie grottesche: così la malignità degli uomini, espressa nella distorsione dei loro lineamenti, si contrappone al sacro.

Sebbene anche i papi e i cardinali siano espressioni di Dio, essi sono raffigurati in modo molto più irrispettoso di Cristo; le varie medaglie fuse che rappresentano le doppie teste di papa-diavolo o cardinale-buffone ne sono un esempio.

Il significato delle “doppie teste papa-cardinale” richiede l’esame delle diverse ipotesi sull’esistenza del diavolo e sul significato del buffone. Dal momento che le teste dei pazzi e dei diavoli sono considerate come espressioni del brutto, occorre cosí determinare la misura estetica del brutto. Il disprezo del Papa come rappresentante del male è possibile solo dopo determinazione del brutto.

Va infine chiarito che le medaglie a due teste non sono solo da ritenere come una critica agli abusi della chiesa, che inizia già all’interno della “Devotio moderna”: un ruolo importante, infatti, è giocato dal piacere per il piccolo formato, che fa apparire curioso il brutto senza valore e preferire l’ambiguo, l’artificiale e l’innaturale, che portano inevitabilmente all’aspetto fantasmatico del brutto.

Attraverso l’esame dell’espansione della sensibilità estetica nel periodo del Manierismo, è ovvio che l’interpretazione delle medaglie a due teste porta oltre l’ambito della satira espresso dalla Riforma.

Le medaglie saranno giudicate non solo in base al loro aspetto moralizzante, ma anche per quanto riguarda la loro giocosità artistica.

2.

Medaglie a due teste.

2.1.

Presupposti per l’emergere di medaglie beffarde.

Nei secoli XV e XVI, l’arte della medaglia, da un lato, e l’invenzione della stampa, dall’altro, furono di grande importanza: questi due mezzi di espressione permisero, infatti, il rapido annuncio degli eventi del tempo e un’ampia diffusione delle opinioni politiche e religiose. Proprio per questo si riscontra una connessione non solo temporale ma anche fattuale tra il periodo d’oro delle medaglie e la Riforma.

Nei secoli precedenti, le medaglie erano poco conosciute nel loro significato di monete commemorative senza corso legale, così che, per esempio, i denari dei vescovi di Liegi del XII secolo rimasero moneta circolante. Ma dal XV secolo esse divennero popolari oggetti da collezione per príncipi e studiosi. Come ricordo di persone o eventi della vita di una persona e, più tardi, anche di eventi importanti nella vita dello Stato, esse sono venute ad assumere la funzione di “monumenti portatili”.

La ragione della fioritura dell’arte della medaglia in questi secoli risiede nella approfondita coscienza del popolo che si sentiva sempre più individuo e, come tale, voleva assicurare la sua memoria oltre la morte.

Anche per questo motivo, i ritratti rappresentati sulle medaglie non dovevano essere solo realistiche rappresentazioni delle persone ma dovevano anche fissare, in modo gradevole e glorioso, il loro carattere. Questa visione si riflette anche nei requisiti che i teorici hanno stabilito per la ritrattistica, con la quale attività artistica il ritratto-medaglia è strettamente connesso.

Sembra tuttavia che, in questo senso, Vasari sia stato un’eccezione perché esigeva una connessione incondizionata con l’aspetto naturale. Dal momento che la somiglianza del ritratto con il modello era ció che per lui contava di più, egli rifiutava la falsificazione per amore della bellezza e considerava pertanto ammissibile la rappresentazione della bruttezza (1). Tuttavia, in questo, egli fu molto isolato e, alla fine, in una lettera a Ottaviano Medici, ammise perfino una visione idealizzante [della persona ritratta] (2).

Sebbene anche gli altri teorici esigessero una somiglianza naturale, essi erano della opinione che i difetti dovessero essere nascosti sotto il velo dell’arte: «Onde s’uno Imperatore è sproporzionato, non deve il pittore esprimere tutta quella sproporzione nel ritratto: et se sará troppo scolorito, ha d’ajutarlo con un poco di vivacitá di colore; ma di tal modo, et con tal temperamento, che’l ritratto non perda la similitudine, e che’l difetto della natura si cuopra accortamente con il velo dell’arte» (3).

La persona ritratta dovrebbe essere rappresentata come esemplare di una classe sociale con un tratto tipico del carattere. Secondo la pittura di ritratto, anche per la medaglia-ritratto la rappresentazione veritiera giocava solo un ruolo subordinato. Gli artisti erano infatti più interessati a ritrarre una personalità in modo rappresentativo.

Le monete commemorative, il cui vantaggio era che potevano essere prodotte in gran numero, servivano a diversi scopi. I cittadini le regalavano ai loro parenti e conoscenti, i principi li regalavano ai loro sudditi o li inviavano alle case regnanti straniere. Spesso esse venivano anche incorporate nelle fondamenta degli edifici di palazzo, come testimoniano le medaglie di papa Paolo II, trovate nel 1857 durante la ristrutturazione dei muri della cantina del Palazzo di Venezia, costruito durante il suo pontificato.

Peraltro, le medaglie commemorative furono più numerose a Firenze, dove non erano solo riservate al duca per glorificarlo ma venivano commissionate anche da singoli cittadini (fossero essi mercanti, studiosi, poeti, pittori, eroi di guerra o monaci) per assicurarsi una fama postuma.

La popolarità delle medaglie non si basava solo sull’idea di costituire un ricordo duraturo o sulla praticità della loro forma maneggevole. Esse suscitavano interesse anche per il loro fascino artistico. Grazie al processo di fusione (che avveniva parallelamente al laborioso intaglio delle matrici [punzoni] per la coniazione delle medaglie), esse potevano essere prodotte non solo dalle zecche ma da tutti gli artisti che lo volevano.

Alla fine del XV secolo, le monete coniate apparvero come un ulteriore famiglia di artefatti, così che gli artisti ebbero la possibilità di realizzare le composizioni individuali in molteplici modi diversi con tecniche diverse. Questo fatto ha conferito alle medaglie una grande espressività, e non solo per quanto riguarda i contemporanei raffigurati: esse registravano anche cambiamenti storici o varie tendenze politiche e religiose.

Simile alle monete dell’antichità (che alludevano più o meno chiaramente ad avvenimenti politici o bellici), verso la metà del XVI secolo e specialmente nelle città dell’Alta Germania, la medaglia-ritratto assunse il compito di documentare gli avvenimenti storici più diversi, ma soprattutto anche le accese dispute religiose che si verificavano in quel tempo (4). Così il potere immaginativo della medaglia non risiedette più solo in gradevoli disegni poetici ma assunse anche il compito di affermare semplici idee e connessioni astratte di idee. Così gli accenti della Riforma e le polemiche comuni a quell’epoca trovarono sbocco su numerose medaglie satiriche del XVI secolo, poiché cattolici e protestanti riconobbero che tanto lo stampo per la fusione quanto la matrice per la coniazione potevano essere usati con la stessa efficacia di “penna e matita” per illustrare i rispettivi punti di vista delle due parti religiose.

2.2.

Medaglie beffarde su papi e cardinali.

Le medaglie a due teste di papi e cardinali (5) riportate in questo testo testimoniano che l’atmosfera combattiva dell’epoca (cioè della prima metá del XVI secolo), in cui l’insulto all’avversario si rivelava un’arma efficace, si rifletteva anche nell’arte delle medaglie.

Il gran numero di queste medaglie beffarde indica che non erano solo diffuse in segreto, ma erano messe in circolazione pubblica proprio per la loro efficacia pubblicitaria. Già all’epoca del successo che i riformatori ottennero con la diffusione di quelle medaglie, il controverso teologo cattolico Jakob Gretser, per esempio, si lamentava: «Anche se si hanno molti modi e opportunità per portare qualcosa al popolo, il modo di farlo per mezzo delle monete è il più conveniente, soprattutto perché il denaro è piacevole per tutti e quindi penetra anche nell’angolo più intimo. Gli eretici del nostro tempo hanno probabilmente approfittato di questo, e non hanno solo operato una scandalosa presa in giro di papi, cardinali, vescovi, preti, monaci, suore e, in generale, dei nostri ordini ecclesiastici, per mezzo di libri, dipinti e statue ma anche, per mezzo di monete, hanno dato ovunque dimostrazione delle loro natura insolente» (6).

Le forme della medaglie con le doppie teste è di particolare importanza poiché, in un certo modo, esse sono prese in prestito dalla medaglia di ritratto. Chiamati Contrafeit-Munz (7), Pfennig o Schaugroschen, quei “ricordi simili a monete” (tra cui le medaglie di derisione) (8) erano spesso montati su catene o simili, come indicato dalla foratura o dagli appiccagnoli di cui varie medaglie sono dotate. In quanto oggetto di scherno, il loro scopo era principalmente concettuale piuttosto che pratico.

L’origine delle medaglie di derisione risiede nell’abitudine presa da Sisto IV, nell’ultimo quarto del XV secolo di far coniare il ritratto del papa sulle monete. Da quel momento in poi, per la produzione di tali pezzi commemorativi, la zecca papale fu molto interessata ad acquisire artisti rinomati come Benvenuto Cellini che, tra il 1529 e il 1533, conió due medaglie di Clemente VII per commemorare la pace siglata tra questi e l’imperatore. Le medaglie con ritratto furono molto popolari anche tra i successori di Clemente VII; per esempio, Paolo III fece realizzare per sé otto monete commemorative dall’incisore di gemme Alessandro Cesati mentre, alla fine del XVI secolo, l’incisore di monete papali Giorgio Rancetti coniò venticinque medaglie solo per Clemente VIII.

Così come fu naturale che la zecca papale conferisse a quei ritratti un carattere nobile e distinto, così, sotto l’influenza della Riforma, altri artisti trattarono invece  irrispettosamente il papa dato che egli, come successore di Pietro, è infatti il capo della Chiesa cattolica romana ed è responsabile solo verso Dio e non deve niente agli uomini né alle istituzioni umane o ecclesiastiche. Analogamente, i cardinali, che hanno il più alto grado nella Chiesa cattolica dopo il Papa (di cui sono consiglieri e assistenti), non sono stati risparmiati.

Ispirate alle comuni monete fuse dell’epoca, le medaglie beffarde mostrano anche a prima vista il ritratto di un papa o di un cardinale. A un esame più attento, tuttavia, esse si rivelano essere una sorta di puzzle: nascosta nelle linee di queste teste c’è infatti una seconda figura che può essere riconosciuta solo quando la testa è capovolta. Se infatti si gira la testa di 180º, il papa diventa un diavolo selvaggio e cornuto, e il cardinale, capovolto, si rivela un giullare. Attraverso queste immagini satiriche “inverse”, il significato delle medaglie di ritratto divenne anche ambiguo: esse non servivano più esclusivamente a glorificare una persona bensí a ridicolizzarla.

Comunque, le medaglie a due teste differiscono dalle medaglie-ritratto in quanto non hanno reale somiglianza con i papi o cardinali vivi o deceduti in quel periodo. E’ interessante rilevare che i papi, senza eccezione, siano rappresentati senza barba sulle medaglie, anche se, dopo il breve regno di Adriano VI, ci fu un certo numero di papi barbuti; seguì poi una serie di papi barbuti. Inoltre, le corone della tiara papale sono raffigurate in forme fantasiose: la loro varietà va da un tipo che riporta un semplice cerchio a modelli di corone variamente decorative; sulla parte superiore della tiara c’è una croce o un pomo o il globo con la croce, che simboleggiano il duplice potere del papa e cioè la sua pretesa di essere signore sia spirituale che temporale. Peraltro, l’uso di questi tre diversi simboli sulla tiara indica che tali medaglie non possono essere state create prima del XVI secolo; nei secoli precedenti, infatti, la parte superiore del diadema era costituita da una pietra preziosa: solo dal XVI secolo questa gemma fu sostituita da croce, pomo o globo sormontato dalla croce.

Le rappresentazioni dei papi possono essere ricondotte a diversi tipi come varianti di una stessa concezione di base. Analogamente avviene per le rappresentazioni dei cardinali: anche loro possono essere divisi in soli cinque tipi sulla base delle diverse forme dei loro copricapi. Il diavolo è rappresentato sulle medaglie sia con corna attorcigliate o ricurve, sia con un orecchio da satiro. Il giullare è rappresentato con un cappello o un berretto, al quale sono solitamente attaccate quattro campane; spesso una di queste quattro campane pende dall’estremità di un orecchio d’asino che sporge sotto il suo copricapo.

Anche se la data di realizzazione è annotata solo raramente sulle medaglie, si può sostenere (9) che esse sono state prodotte negli anni a partire dal 1539. La classificazione cronologica è stata difficile, soprattutto perché solo una parte delle medaglie prodotte nei due decenni successivi è firmata. Questo fatto potrebbe indicare che i medaglisti volessero nascondersi dietro l’anonimato protettivo; tuttavia, negli altri generi espressivi, la maggior parte degli artisti di quell’epoca confessarono apertamente anche le loro opere polemiche contro la chiesa o singole personalità. È quindi improbabile che solo il gruppo dei medaglisti si sia distinto da quella cerchia e abbia deliberatamente negato la propria paternità delle opere. Peraltro, non era affatto usuale che l’artista scrivesse il suo nome o le sue iniziali sulle altre medaglie ritratto, anche se prive di intenzione satirica (10). Perció, l’assenza di firme sulle medaglie satiriche non significa necessariamente che gli artisti abbiano nascosto i loro nomi per paura della rappresaglia delle parti rappresentate. Peraltro, in questo senso, è molto probabile che i medaglisti fossero completamente imparziali e che non abbiano firmato le loro opere solo perché l’arte medaglistica di solito si asteneva comunque dal farlo.

Anche se la maggior parte dei medaglisti rimase anonima, si sa che il luterano Nikolaus von Amsdorf (che fu il primo vescovo di Naumburg dal 1542), è responsabile di diverse medaglie a doppia testa. Altri pezzi si dice che provengano dalla mano dell’intagliatore e medaglista Friedrich Hagenauer di Augusta (11), anche lui vissuto nella prima metà del XVI secolo.

Queste indicazioni cronologiche ci permettono di trarre conclusioni sull’origine delle medaglie a due teste. È possibile che tale genere di opere risalga alla medaglia che fu coniata nel periodo dal 1530 al 1560 circa in onore del partito di fede imperial-papale per canzonare il papa-imperatore (12). Si tratta di una congettura molto verosimile: infatti, l’occasione per l’emissione di quella medaglia di papa/imperatore fu il fatto che, al culmine della sua influenza durante la Dieta Imperiale di Augusta nel 1530, Carlo V avesse deciso di sconfiggere i luterani per mezzo del suo potere imperiale. Per questo motivo i protestanti sostenitori della fede luterana ridicolizzarono la medaglia del papa/imperatore facendo realizzare a loro volta delle medaglie a doppia testa che, sul dritto, raffiguravano le due teste coronate del papa e dell’imperatore unite in modo reversibile mentre sul rovescio mostravano una doppia testa ciascuna di cardinale e di vescovo (13). Dopo che i príncipi protestanti si unirono nella Lega di Schmalkaldic, in risposta all’azione congiunta di papa e imperatore, dal 1531 le immagini inverse di papa e diavolo apparvero gradualmente accanto alle medaglie a due teste di “papa e imperatore” o “cardinale e pagliaccio”. Con queste, l’intenzione di ridicolizzare la Chiesa romana fu ancora più evidente.

In ogni caso, ovviamente, entrambi i tipi di medaglie beffarde rappresentano un esplicito mezzo di propaganda usata dalla Riforma dal momento che deridono la Chiesa cattolica. Esse si basano sempre sulla stessa idea artistica, anche se in diverse varianti, come dimostrano le opere dello stesso tipo qui illustrate.

Questo speciale genere di rappresentazione satirica fu ripreso anche da altre forme d’arte: una doppia testa di cardinale e sciocco (14) si trova cosí in una xilografia mentre una doppia testa di Lutero e sciocco (15) fu realizzata dalla parte cattolica per ridicolizzare i protestanti e, infine, una doppia testa di papa e diavolo si ritrova in un dipinto  piú tardo (16).

Che le medaglie siano servite da stimolo per gli altri generi artistici è già evidente dalla classificazione cronologica: mentre le monete furono infatti create poco prima della metà del XVI secolo, la pittura risale solo al 1600.

La forma circolare della medaglia ricorda il tondo che, in un senso più stretto, si sviluppò a Firenze dalla metà del XV secolo, soprattutto per le Madonne; esso  rimase essenzialmente limitato a Firenze e fu perso di nuovo nella prima metà del XVI secolo. Le sue radici principali sono il medaglione antico e la “gloria” cristiana. Naturalmente, i formati circolari sono sempre esistiti nelle belle arti ma la forma circolare delle medaglie sembra piuttosto determinata dalla sua origine nella monetazione;  infatti, le altre forme d’arte non hanno usato la geometria della medaglia ma hanno piuttosto applicato la dichiarazione contenutistica dell’ambiguità a qualsiasi formato.

Il modello per il dipinto, in cui la fisionomia del papa sembra quella di un dio arrabbiato, potrebbe essere la medaglia di scherno antipapale mostrata in Fig. 5; per quanto riguarda la raffigurazione della testa del diavolo, la medaglia attribuita a Friedrich Hagenauer (fig. 1) e la moneta a due teste (fig. 3) sembrano essere servite come ispirazione. Peraltro, rispetto alle medaglie, il dipinto registra un incremento della bruttezza e della distorsione dei tratti del viso.

2.2.1.

Il significato delle scritte sul bordo delle medaglie.

Mentre il disprezzo del papa, che è sostanzialmente lo scopo di quel dipinto, è espresso solo attraverso la fisionomia del personaggio, le iscrizioni sulle medaglie chiariscono ulteriormente l’intenzione creativa. Su una medaglia scarcastica (17), sulla quale è insolitamente riconoscibile l’incisore di medaglie Hans Reinhart il Vecchio di Lipsia (la cui influenza sui suoi contemporanei fu peraltro significativa (18), l’iscrizione sul dritto intorno a una doppia testa di papa con diavolo recita “ECCLESIA PERVERSA TENET FACIAM DIABOLI” (la chiesa perversa ha l’aspetto del diavolo). Anche sul rovescio, che mostra la figura bicefala di un cardinale e di un buffone con berretto tintinnante, il contenuto è sottolineato dall’iscrizione “SAPIENTES STULTI ALIQUANDO” (a volte i saggi sono sciocchi). Su un’altra medaglia di Hans Reinhart il vecchio (19) la scritta intorno a una doppia testa di cardinale-giullare recita “CARDINUM MUNDI EFFIGIES” (il cardinale è l’immagine del mondo).Un’altra medaglia antipapale beffarda (20) dice “EFFEMINATI DOMINABUNTUR EIS” (le prostitute dominano su di loro).

Queste iscrizioni, chiamate legendae (cioè tali da doversi leggere), erano per lo più scritte in lingua latina. Ma la stupidità e l’orgoglio erano derisi anche in francese: “ORGUILLE FOLIE” (21).

Per essere popolarmente comprensibile come mezzo di propaganda, a volte si diceva anche in tedesco: “DES BAPST GEBOT IST WIDER GOTT” (l’ordine del papa è contro Dio) e “FALSCH LEHR GILT NICHT MEHR” (il falso insegnamento non da niente) (22).

Le legende, che, per tutta la loro varietà, si ripetono più volte, come i motivi delle medaglie, forniscono così il commento vero e proprio e indicano lo scopo delle opere, che in questo periodo era preso molto sul serio. In questo senso, il ruolo delle legende è essenziale e significativo.

2.3.

Scopo delle medaglie a due teste.

Senza il significato fornito dalla legenda, l’idea delle medaglie in questione è difficile da cogliere. Le viste di profilo sulle medaglie beffarde, che seguono l’esempio delle monete imperiali romane, non differiscono da quelle medaglie-ritratto fatte allo scopo di immortalare una persona, perché il volto delle persone raffigurate rimane apparentemente naturale. L’espressione facciale di quelle rappresentazioni, se non completamente eliminata dalla semplice configurazione, è limitata principalmente alla bocca mobile. Solo la rotazione della medaglia porta alla luce una seconda faccia, il cui mento è sempre formato dal naso della testa superiore, mentre la bocca è la stessa per entrambe le teste. Sembra particolarmente sarcastico che l’unica caratteristica comune delle doppie teste altrimenti così diverse sia la bocca, che negli umani è usata per parlare e gioca comunque un ruolo essenziale nel modellare l’espressione della faccia. La doppiezza del personaggio è particolarmente enfatizzata dalla connessione che viene rappresentata e, nel senso più autentico della parola, enfatizzato.

2.3.1.

La connessione con l’idea del “mondo alla rovescia”.

Occorre aggiungere che il medaglione a due teste testimonia una stretta relazione con l’idea del “mondo a rovescio”, che era un tema comune nel tardo Medioevo e si manifestava in molte forme, ma soprattutto come un’inversione dall’alto verso il basso (23).

È l’espressione perfetta per tutto ciò che è irragionevole e irrazionale.

Nell’inversione dello stato normale delle cose, per cui la serietà del mondo terrestre si trasforma in leggerezza, Scribner vede una connessione con il carnevale, che trasforma l’ordine in caos (24). Nel carnevale, la dignità è derisa, il sublime è sminuito e le norme e l’ordine sociale sono capovolte, nonostante un mondo completamente rovesciato (25).

L’inversione, tuttavia, appartiene anche alla dottrina cristiana; idee come “gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi” o “chi si umilia sarà esaltato”, o “chi si esalta sarà umiliato” si trovano ovunque nei Vangeli. Per Scribner, tali idee si basano sul principio religioso dell’inversione, nella misura in cui il mondo materiale terreno è un rovesciamento della vera realtà, che, a differenza delle cose materiali e deperibili cui l’attenzione della gente è diretta, è spirituale ed eterna (26).

Anche l’idea dell’Anticristo appartiene a questo contesto, perché egli è l’inversione di tutto ciò che è cristiano e divino: secondo le Epistole di Giovanni nel Nuovo Testamento (27), egli va cercato tra gli uomini che non sono più convinti sugli apostoli. I riformatori hanno anche capito che l’Anticristo non è un diavolo ma un uomo che afferma di essere Cristo. Quindi non va cercato negli inferi ma nei falsi cristiani (28) che non vivono in modo credibile la loro convinzione. L’Anticristo è stato ipotizzato fin dall’inizio della cristianità, come si può riscontrare dalle lettere di Paolo (29), un tipico segno della fine dei tempi. Poco dopo la morte di Gesù ci si aspettava che essa fosse imminente e che un nuovo mondo l’avrebbe seguita. Anche nell’Apocalisse (la rivelazione segreta) che con un linguaggio figurato mette a confronto le esperienze ecclesiali intorno al 100 d.C. del cristianesimo di allora con le aspettative della fine e raffigura il dominio di Dio sulla storia umana, si dice che Gesù tornerà presto; anzi, si annuncia l’Anticristo, ma il Signore sarà più forte di lui.

La dottrina della consumazione del mondo, l’escatologia, è la convinzione cristiana che qualcosa di meglio verrà attraverso la distruzione. Individualmente, questa ipotesi si applica alla morte dell’individuo, ma significa anche la fine e la consumazione del mondo.

La speranza del cristianesimo di un mondo nuovo attraverso la morte di Gesù fu ripetutamente delusa, così che la profezia della fine dei tempi rimase viva nel ciclo delle generazioni. Anche se le successive profezie sulla fine del mondo non si sono avverate, ogni occasione ulteriore è stata tanto più probabile da allontanare la fine. In questo modo, l’opposizione dell’attesa cristiana e dell’esperienza terrena rimanevano in relazione tra loro senza essere contraddette (30). Così, fino al XVI secolo, l’attesa costante dell’ultima volta era contrapposta al costante ritardo della fine lontana (31). In questo periodo, tutti i segni concernenti la fine del mondo erano ripresi dal movimento di rinnovamento religioso.

Oltre a ció, durante la Riforma, i segnali che avrebbero annunciato la fine del mondo secondo l’Apocalisse di Giovanni sembravano manifestarsi, anche perché le persone più attente di questo periodo erano convinte che l’Anticristo fosse il Papa.

Una connessione tra il Papa e l’Anticristo è fatta dalla medaglia beffarda di Peter Flötner, datata attorno al 1545 (32). L’iscrizione, che sul dritto circonda il busto di Cristo a sinistra e a destra, secondo Giovanni 1:29 e Giovanni 14:6, recita rispettivamente «ICH BIN DAS LEMLEIN DAS DER WELT SUND TREGT» (io sono il limite che guida il mondo) e « NIMANT KUMPT ZU DEM VATER DAN DURCH MICH» (nessuno andrá al Padre se non tramite me). Sul rovescio, in cui un piccolo diavolo gli sta afferrando la corona Papa, il Papa è identificato come l’Anticristo dalla scritta: «SO BIN ICH DAS KINDT DER VERDERBNUS UND DER SUNDEN» (cosí io sono il figlio della corruzione e del peccato).

Le rappresentazioni di mostri, demoni ed esseri fantastici che erano popolari nel Medioevo, sono anch’esse legate al senso del “mondo alla rovescia”. In un’epoca che minacciava di tralignare, essi segnalavano il disordine nel mondo morale come un’inversione della natura, il segno di una natura disordinata (33): in tal senso, il deterioramento morale era stato riconosciuto nell’inversione della forma (34). La riverenza si rovescia in cruda familiarità, la dignità in umiliazione, il rispetto religioso in bestemmia.

Se si considera che il compito effettivo della medaglia non era l’espressione fisiognomica ovvero un’enfasi del momento emotivo ma la riproduzione oggettiva di un aspetto evidente, allora le doppie teste Cardinale-Pagliaccio e Papa-Diavolo appartengono senza dubbio a questa gamma di temi.

2.3.2.

L’esperienza di Dio dal volto di Giano.

Colpisce il dualismo espresso nel fatto che, sulle medaglie, il papa fosse sempre associato al diavolo mentre la contro-immagine dei cardinali fosse sempre lo sciocco [il matto, il pagliaccio, il buffone].

Poiché le doppie teste dei rappresentanti terreni di Dio esprimono due diversi comportamenti, ci si chiede se questo non corrisponda anche a un’allusione a due forze fondamentali che muovono la parte più interna di Dio. Soprattutto nell’Antico Testamento troviamo due modi opposti con i quali Dio rivolge la sua attenzione di Dio verso l’umanità, cioè guarire e distruggere (35): in questo senso, lo stesso male è identificato con l’immagine di Dio al punto che l’Antico Testamento non conosce quasi demoni indipendenti e li menziona al massimo di sfuggita (36).

Al tempo dell’antico Israele, Yahweh era percepito principalmente come il Dio della vendetta e del castigo. L’uomo si sentiva impotente in balia della potenza spietata di Dio (37). Nella fase iniziale dell’umanità, le forze spesso distruttive della natura erano attribuite a un Dio vendicatore, che doveva essere placato da sacrifici. Ma non appena le persone furono gradualmente capaci di controllare quelle forze elementari, l’immagine di Yahweh si trasformó. Egli divenne un Dio che non distruggeva più indiscriminatamente, ma lasciava esistere chi non aveva peccato (38). Così, la distruzione non colpiva più indiscriminatamente. Così, la sua crudeltà, prima incalcolabile, si era trasformata in un “demone didattico”.

Un esempio di questo concetto si riscontra nella storia veterotestamentaria di Giobbe, che riflette la sofferenza dei giusti e la giustizia di Dio. Giobbe, il pio sofferente che cade nella miseria senza sua colpa e la cui fede vacilla perché si sente spinto nel nulla, insegna che Dio vuole che l’uomo sperimenti sia la felicità che la disgrazia, poiché solo attraverso l’esperienza contrastante della sofferenza egli può comprendere pienamente la sua felicità.

Tuttavia, il potere distruttivo di Dio non prende mai il sopravvento, poiché è sempre soggetto alla sua sovrana volontà di salvezza, che alla fine trasforma tutto in bene, affinché tutti possano confidare in lui. Ma l’idea di un “Padre Celeste” innocuo e indulgente (39) viene scambiata con quella di un Dio educativo e talvolta terrificante. Questo aspetto daimonico di Dio, tuttavia, non è da intendersi come il sublime e l’incomprensibile per eccellenza, ma solo nel senso limitato del perturbante (40). Esso è strettamente legato all’esperienza dell’ignoto che, essendo strano, sembra inquietante e pericoloso. Dio è essenzialmente inconoscibile per l’uomo; la sua essenza sfugge a qualsiasi definizione, è sconosciuta e quindi appartiene al regno del senza nome, minaccioso. Ma essere spaventati è precisamente una delle caratteristiche essenziali del sacro. La santitá non è un concetto umano-morale, ma denota l’unicità di Dio e l’appartenenza a lui: Dio è santo e gli uomini lo lodano, lo glorificano e lo temono. La rappresentazione di Dio mediante il volto di Giano non poteva quindi essere mantenuta a lungo. Il regno demoniaco fu sempre più separato da Dio e attribuito al diavolo, così che anche il diabolico delle doppie teste nega una connessione con il divino, ma solo con il diavolo.

2.3.3.

L’esistenza del diavolo.

L’identificazione del papa con il diavolo è senza dubbio ispirata dagli insegnamenti e dagli scritti di Lutero che, lungi dal superare la credenza medievale nel diavolo, in realtá l’aveva piuttosto approfondita. Nella lotta tra Cristo e Satana per il possesso della Chiesa e del mondo, che egli ritrasse come violentemente opposto a Dio, all’uomo e al mondo, nessun teologo prima o dopo di lui ha ragionato nello stesso modo (41). Convinto della presenza permanente dell’Avversario, Lutero diede un resoconto della propria esperienza con il diavolo come una manifestazione inspiegabile: «Ma non è una cosa strana e inaudita che il diavolo rimbombi e vada in giro per le case. Nel nostro monastero di Wittenberg l’ho sentito personalmente. Infatti, quando cominciai a leggere il Salterio e dopo che avevamo terminato le preghiere notturne e io sedevo nel coro, studiando e scrivendo la mia lezione, allora il diavolo venne e rumoreggió nell’inferno, come se ne trascinasse fuori un moggio. Alla fine, visto che non cessava, raccolsi i miei libriccini e andai a letto; ma oggi mi dispiace di non essermi seduto fuori con lui, dato che avrei visto cos’altro avrebbe fatto il diavolo. E ancora l’ho sentito una volta sopra la mia camera nel monastero» (42).

Nell’autobiografia di Lutero, che costituisce la premessa alla prima edizione della raccolta delle sue opere, si sottolinea chiaramente l’atmosfera minacciosa di quel tempo, in cui l’uomo era visto come un campo di battaglia tra Dio e il diavolo: «Perché quest’ultimo è potente e maligno, proprio ora più pericoloso che mai, perché sa che può infierire solo per poco tempo» (43).

In relazione alla critica al papato, che Lutero riteneva responsabile degli abusi nella chiesa, l’equazione del papa con il diavolo si trova nella stessa opera, così come nei “Colloqui a tavola” e nel noto pamphletContra Papatum a Diabolo Fundatum”, che fu anche ripreso dai medaglisti.

Sotto il profilo della storia religiosa il concetto di diavolo è difficile da afferrare ma in tutte le religioni si cerca di spiegarlo in funzione del contrasto fra il bene e il male, anche se solo raramente tale entità corrisponde come antagonista adeguato all’Essere Supremo e, infatti, nel cristianesimo il principio del buono è superiore a quello del male.

L’esistenza del diavolo è riportata anche nel Nuovo Testamento così come in molte testimonianze della tradizione della fede cristiana. Il diavolo è anche connesso alla salvezza operata da Cristo, in quanto la salvezza è lo stato di felicità che deve essere ricercato dall’uomo religioso: a questo stato di grazia egli è condotto dal Salvatore dallo stato imperfetto del peccato. Cristo, quindi, ha fondamentalmente spezzato il potere del demonio.

Ci sono due diverse concezioni del diavolo, la potenza incalcolabile che rappresenta l’orrore del mondo per eccellenza (44).

Da un lato, il Diavolo è la personificazione del peccato del singolo uomo che, se non costringe, almeno tenta di indurre a commettere follie avventate. Dall’altro, egli è il misterioso avversario di Dio, la cui immagine rimane intangibile, anche se ci appare familiare come una figura anomala di animale e di uomo con piede e corna di capra: la nostra immaginazione è infatti  irrimediabilmente legata alla fisicità, cioè alla realtà oggettiva (45).

Nella Bibbia, il diavolo non è una figura mitica atta a rappresentare la lotta del bene e del male ma un essere che, secondo la sua natura inferiore, è avversario di Dio, la testimonianza dello sviluppo storico del conflitto perduto. Inoltre, egli è il rappresentante degli esseri che si ribellano a Dio (46).

Alla luce di quanto detto, è chiaro che la doppia testa di papa e di diavolo non solo collega i due concetti opposti di bene e di male ma, allo stesso tempo, si prende gioco della gerarchia religiosa della Chiesa cattolica.

Nella ben nota Disputa di Lipsia, Lutero aveva negato la supremazia divinamente ordinata del Papa. Egli voleva rispettare il papa solo nella sua funzione di vescovo di Roma e rispettare il papato come istituzione costituita secondo il diritto umano. Per lui lo standard di obbedienza era solo il Vangelo e non un’istituzione umana. Poiché i riformatori non condividevano la visione cattolica che il papa fosse rappresentante di Dio, essi ridicolizzavano questa uguaglianza giustapponendo il papa al diavolo, il più alto contropotere celeste. Così le medaglie a due teste servirono ai riformatori come un insulto rivolto ai cattolici.

2.3.4.

Il motivo del Buffone.

Nello stesso senso delle doppie teste del papa-diavolo, vanno intese le doppie teste del cardinale-buffone. Per il cardinale, che è soggetto solo al papa, cioè a un essere umano e non a un essere divino, il giullare mondano è, allo stesso livello, la contro-immagine di quel mondo (47).

La letteratura sui matti fiorì soprattutto all’inizio del XVI secolo, dopo che il motivo li riguarda era stato diffuso dalla “Nave dei folli” di Sebastian Brant, che forniva uno specchio contemporaneo e mondiale dei difetti e dei vizi di tutti gli ambienti e le professioni, a partire dal 1494. Così Thomas Murner sviluppò la poesia dottrinale di Brant, in cui la possibilità di un’identificazione tra stoltezza e peccato era solo agli inizi, in un pamphlet in cui stabilì un’analogia della sfera dello stolto e della sfera del diavolo e caratterizzò lo “stolto” come il “distruttore che si ribella a Dio”.

Ma mentre la concezione di Murner dello sciocco non aveva nulla di promettente per il futuro, Erasmo da Rotterdam aprì nuove prospettive nel suo “Laus Stultitiae” (elogio della follia). Ispirato da Sebastian Brant, l’iniziatore del concetto, Erasmo riprese il tema esattamente nel punto in cui Murner aveva riconosciuto solo l’inganno e la impotenza, cioè al timidamente accennato ottimismo della ragione di Brant (48).

In tal senso, Murner ed Erasmo hanno contribuito allo sviluppo delle premesse di Brant, l’uno per negarle completamente, l’altro per portarle oltre. Mentre Murner accrebbe i tratti negativi presenti nella “Nave dei folli” fino all’insormontabilità, Erasmo diede al tema dei folli una concezione positiva. Secondo lui, infatti, la tradizione cristiana e lo sforzo umanistico per l’innovazione potrebbero essere combinati, anche se non proprio in modo non problematico, almeno in un modo sostenibile. Con una tale soluzione del problema del suo tempo, Erasmo fu superiore sia a Brant che a Murner: egli è stato, infatti, l’unico che ha saputo interpretare l’essenza stessa della follia senza un’intenzione prevalentemente pedagogica o polemica.

Poiché le doppie teste denunciano l’ipocrisia della Chiesa, il buffone qui è da intendersi nel senso dell’uomo stupido e stolto. È una figura che si fa notare per la sua irragionevolezza, un clown, una figura grottesca nel vero senso della parola, attraverso la cui forma la realtà traspare fin troppo chiaramente. Dopo tutto, in questo senso la fisionomia del giullare sarebbe “molto vicina” alla faccia del cardinale.

La forma rotonda della medaglia e l’iscrizione che la circonda, il cui inizio e la cui fine si fondono l’uno nell’altra, collegano inoltre le due facce in un ciclo costante.

Allo stesso tempo, la rotondità della medaglia è utile nella misura in cui essa sfida lo spettatore a guardare la medaglia da un angolo sempre nuovo, riducendo così all’assurdo concetti come costanza e solidità: l’incostanza e l’ambiguità sono cosí piuttosto le caratteristiche di ciò che viene rappresentato.

Ma questo significa anche che l’artista sottopone una persona di una certa autorità plasmandola alle proprie idee, esprimendo cosí la sua rappresentazione e non la sua personalitá. Non è il papa ma l’istituzione che viene demonizzata, non il cardinale ma il suo ruolo in quanto tale che viene esposto al ridicolo. Ecco perché nessuno dei volti dei cardinali e dei papi costituisce una rappresentazione fedele della realtà oggettiva e tutti hanno tratti caricaturali. Al fine di garantire la credibilità dell’opera, tuttavia, a prima vista, le teste del papa e dei cardinali si avvicinano comunque a un certo tipo di ritratto, anche se spietato. Così la rappresentazione pittorica può essere un simbolo che non è rappresentabile.

2.4.

La misura estetica del brutto.

Le teste degli sciocchi e dei diavoli, tuttavia, ricadono nel senso della loro contro-immagine, nel regno degli informi e dei rozzi, anzi dei brutti. Come controparti di un mondo armonioso di forme costanti, essi danno espressione al caos e al brutto. Il brutto ha qui un significato morale come segno della decadenza della spiritualità. Per quanto riguarda il deforme, esso è l’espressione adeguata del male e si suppone che essa abbia un effetto deterrente.

In sostanza, l’estetica del brutto è insita in queste doppie teste. Perché è ritenuto mezzo legittimo di agitazione contro i componenti ecclesiastici, il brutto acquista un valore artistico (49). Dove occorreva riconoscere l’allegorico, più che l’aspetto di una bellezza a riposo in se stessa, era importante rappresentare il brutto. Il primo piano doveva ora dare accesso allo sfondo. Questo sviluppo di profondità è stato spesso possibile solo rompendo radicalmente la rappresentazione neutrale e oggettiva.

Il prerequisito per far emergere la bruttezza, tuttavia, era uno standard con cui la bruttezza poteva essere misurata. Questo standard fu offerto solo dal Rinascimento, il cui obiettivo fu quello di rappresentare la realtà materiale in forma astratta, seguendo l’esempio dell’arte classica, in un ritorno all’antichità (50). La semplice esistenza della bellezza non era sufficiente; piuttosto, essa doveva essere considerata come una misura estetica vincolante, in modo che ogni altra forma potesse essere misurata con essa. Il brutto è dunque un concetto relativo che puó essere percepito solo in relazione a un altro concetto; esso esiste solo nella misura in cui il bello costituisce la sua precondizione positiva, come la negazione della quale trova il suo diritto di esistere (51).

2.4.1.

Il bello e il brutto.

Un problema, tuttavia, risiede nel fatto che la bellezza non può essere definita. Il concetto di bellezza trascende tutte le categorie e i termini generici. È una delle caratteristiche delle determinazioni fondamentali dell’essere, che seguono direttamente e necessariamente dalla sua essenza e la accompagnano inseparabilmente. Al contrario del brutto, il bello è la gradevole qualità della nostra sensazione che ci piace.

In estetica, il bello è concepito come l’armonia “delle parti di un tutto” e come una convenienza apparente. La concezione metafisica del bello riconduce questo concetto a una corrispondenza tra l’apparenza e l’essenza dell’oggetto, tra la cosa guardata e l’archetipo.

Due esperienze originariamente umane sono alla base del bello; una è il cosmo, il cui ruolo nell’esperienza del bello è fuori discussione; la seconda è l’incontro con la bellezza umana che è sempre legato al suo aspetto sensuale.

L’idea di ciò che costituisce un bell’essere umano varia in ogni momento. Ma l’immagine desiderabile dell’uomo di un’epoca è comunque sempre identica a un ideale di bellezza (52). Nell’arte significa sempre allontanarsi dal brutto e anche dalle cattive caratteristiche.

Oltre all’idea della mera imitazione della natura attraverso un’opera d’arte, il pensiero dell’antichità riteneva già che l’artista fosse capace di contrapporre alla natura un’immagine di bellezza creata ex novo.

Per Socrate, che riteneva che non ci fosse nessun essere umano completamente irreprensibile nel suo aspetto, era evidente che l’artista migliorava le imperfezioni per libera capacità creativa, attingendo le parti più belle da molti corpi (53).

In contrasto con questo aspetto della perfezione della bellezza “per selezione”, Cicerone sosteneva che la bellezza non poteva essere prodotta dall’esperienza ma poteva essere solo immaginata nella mente. Secondo lui, gli artisti, nella loro immaginazione interiore, possedevano un archetipo di bellezza che li aiutava a rivelare qualcosa di bello, anche se non poteva rientrare perfettamente nella loro rappresentazione (54). Allo stesso tempo, però, Cicerone negava allo spettatore la capacità di riconoscere l’intera bellezza dell’oggetto della rappresentazione artistica, poiché essa non poteva essere colta con i sensi, ma esisteva solo come immagine mentale interiore: «.. sed ego sic statuo, nihil esse in ullo genere tam pulchrum, quo non pulchrius id sit, unde illud, ut ex ore aliquo quasi imago, exprimatur. quod neque oculis neque auribus neque ullo sensu percipi potest, cognitatione tantum et mente complectimur...» (55).

Accanto a queste visioni, anche nell’antichità si incontra un mondo disinteressato al bello. Nei cataloghi dei vizi e delle follie della filosofia stoica domestica e popolare, il bello era stato svalutato e metodicamente vituperato.

La svalutazione stoica del bello si ritrova nelle “Epistole morali” di Seneca. Per lui, niente è più irragionevole che apprezzare la bellezza, poiché, in quanto cosa passeggera, non merita alcuna ammirazione. Inoltre, ciò che è bello non è “buono”, perché “buono” è solo diventare buono nel “pozzo della propria interiorità”. Perciò egli sostiene: «Ritiratevi!». «Fai a te stesso ciò che gli uomini amano fare nei confronti degli altri…». «Pensa male di te stesso» e «assumi il ruolo di accusatore, poi quello di giudice, infine quello di avvocato» (56). Per lui vale solo il dio dell’idealismo morale (57). Secondo questo pensiero, l’uomo raggiunge la sua dignità solo in atti psico-ascetici, ai quali lo aiuta la tecnica del disprezzo di tutto ciò che è bello.

Un mezzo comodo ed efficace per lo smascheramento delle belle apparenze è quello di immaginarle divise, poiché sono allora disgustose, cieco allarme e vertigine (58). Così, dal punto di vista dello stoico pagano, il bello è necessario solo per mettere alla prova la virtù della forza di volontà e per trascendere il non egoistico.

Gli apologeti cristiani, che scrivevano in latino e in greco, fecero a gara con gli stoici pagani nello svalutare il bello. Per loro, tuttavia, la bellezza avrebbe potuto esistere in abbondanza – solo che l’uomo non ha diritto a quella bellezza, poiché essa appartiene solo al Creatore del mondo. Ora non è più l’uomo che vuole ritrovarsi nell’indispensabilità della sua volontà e quindi si vieta la gioia della bellezza. Ora all’uomo come creatura è negato il diritto alla bellezza.

Così, secondo Tertulliano, ciò che non è la bellezza di Dio è del diavolo, per quanto bello possa essere (59). Origines sviluppa ancora di più questo concetto: «Se solo la bellezza di Dio deve essere valida, solo il Figlio di Dio deve essere bello». Secondo questi punti di vista, Dio era considerato la bellezza assoluta. L’amore, la vivacità e la perfezione erano legati a lui. Il mondo, perciò, era tenebra e menzogna, per cui Dio e il mondo dovevano essere tenuti separati.

Ma, lo sviluppo della fede cristiana, la via degli antichi non era più praticabile, perché, se tutto ciò che è “bello” è del diavolo, che cosa è allora la bellezza soprannaturale del Creatore del mondo? Inoltre, il mondo è opera di Dio, per cui tutto ciò che è straordinariamente bello potrebbe essere un riflesso della bellezza di Dio.

Un questione che il cristianesimo dovette affrontare fu certamente il problema dell’estetica medievale. Perciò Agostino e Dionigi Pseudo-Areopagita cercarono di riformulare le vecchie dottrine.

In tal senso, la filosofia paleocristiana ha potuto adottare quasi immutata la visione del neoplatonismo, secondo la quale la bellezza visibile era solo il simbolo di una prossima forma superiore di apparenza. Anche se, per Agostino, il naturale (cioè le cose belle della natura come il cielo, le stelle e l’acqua) offriva una bellezza di prima mano, egli riconosceva anche che l’arte poteva portare alla luce la bellezza: l’artista non avrebbe dovuto rappresentare gli oggetti naturali ma esprimere la sua immaginazione interiore.

Agostino elogiava la potenza impressionante del bello e confessava il suo compiacimento in esso. Per lui, la bellezza era bella in sé e quindi piacevole. Ma Agostino non voleva solo godere del bello, voleva anche capirlo, cioè giudicarlo; quindi, proprio come Platone, sviluppó un ragionamento a partire dal bello. Come mediatore tra Dio e il mondo della materia, il bello visibile (che egli vedeva solo come un racconto dell’invisibile), gli serviva per la venerazione di quella bellezza che stava oltre le opere d’arte.

Poiché l’opera d’arte aveva il compito di essere utile per un certo scopo e, allo stesso tempo, per trasmettere certi significati, la bellezza dell’arte era condizionata dalla ca-tegoria dell’utile. Agostino, tuttavia, espresse la sua preoccupazione per la crescente diversità della produzione di opere d’arte e oggetti di uso quotidiano. Poiché, a suo parere, questa attività creativa andava oltre il puro significato e l’utilità delle cose, egli temeva che la gente potesse soccombere al fascino meramente esteriore del bello nell’arte senza riflettere sul suo Creatore. In realtà, per Agostino la bellezza che gli artisti esprimevano con le loro mani sulla base della loro immaginazione interiore doveva servire solo alla gloria di Dio, dalla cui bellezza soprannaturale procedeva: «Quam innumerabilia variis artibus et opificiis in vestibus, calciamentis, vasis et ciuscemodi fabricationibus, picturis etiam diversisque figmentis atque his usum necessarium atque mederatum et piam significationem longe transgredientibus addiderunt homines ad inlecebras oculorum, foras sequentes quod faciunt, intus relinquentes a quo facti sunt et exterminantes quod facti sunt, at ego, deus meus, etiam hinc tibi dico hymnum et sacrificio laudem sacrificatori meo, quoniam pulchra traiecta per animas in manus artificiosas ab illa pulchritudine veniunt, quae supra animas est, cui suspirat anima mea die ac nocte» (60).

Agostino, che ha sostituito l’impersonale mondo-spirito del neoplatonismo con il Dio del cristianesimo, ha così ammesso il bello artistico, pur se limitato, nella misura in cui esso era espressione della natura divina.

La sua concezione del bello artistico ha comunque fornito un terreno fertile per le teorie dei secoli seguenti.

Nel Medioevo, quando la teoria filosofica del bello, la teoria dell’arte e la teologia della percezione sensoriale erano nettamente separate l’una dall’altra, la bellezza era concepita come una “qualità oggettiva dell’essere in sé” (61). Quella qualità poteva essere rivelata dall’uomo, ma non prodotta, così che l’arte nel Medioevo era considerata bella quando assomigliava alla natura. La bellezza che poteva essere presente nell’opera dell’artista nella stessa misura che nell’opera della natura dipendeva comunque dal piacere che suscitava in chi la guardava. C’era però una grande differenza tra l’opera dell’artista e la bella natura creata da Dio: infatti l’artista puó solo imitare solo la bellezza creata da Dio dal nulla.

La bellezza, che era la qualità più alta nella natura e nell’arte, collegava il mondo materiale con il mondo superiore, l’uomo con Dio; essa era considerata sinonimo di perfezione ed era equiparata alle categorie del vero e del buono.

Questa concezione era di origine platonica. Dopo che lo pseudo-Dionigi Areopagita la introdusse nella filosofia cristiana, essa mantenne la sua validità fino a Tommaso d’Aquino, che la riformulò in termini aristotelici. Per questo pensatore, la bellezza era la vivacità del vero e del buono. Al contrario, di conseguenza, , il falso e il cattivo non esprimevano bellezza, perché mancavano di tangibilità; ma non c’era nessuna bruttura assoluta e, quindi, nessuna invisibilità, perché tutto l’essere riceve da Dio, grazie alla sua perfezione, tanta bellezza visibile quanto l’essere.

Di conseguenza, Giovanni Scoto, nel suo commento “Super ierarchiam coelestem Sancti Dionysii”, per il giudizio del bello presuppone che ogni cosa sia luce per l’uomo. Attraverso la contemplazione dell’oggetto e la sua classificazione in certi generi di cose all’interno dell’ordine universale, l’uomo ha accesso alla luce altrimenti inaccessibile. Dato che le cose partecipano a questa luce attraverso il loro essere, esse sono guardabili e quindi belle (62). In questo senso, la contemplazione soddisfa il desiderio del bene, e il godimento della bellezza diventa una lode al Creatore divino. Come analogia del soprasensibile, per Giovanni Scoto, la bellezza era comprensibile solo spiritualmente: «Hine est, quod universalis huius mundi fabrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex multis lucernis compactum, ad intelligibilum rerum puras species revelandas et contuendas mentis acie, divina gratia et rationis ope in corde fidelium sapientum cooperanti bus» (63).

Nella filosofia dell’arte medievale, anche le immagini dell’uomo erano comprese in funzione della visualizzazione dell’intelligente universale. Nel loro significato universale, esse illustravano una virtù, un peccato o un ufficio, un mestiere, così come gli eventi della storia salvifica e profana.

Sebbene la concezione medievale della comprensione di una bellezza che può essere colta solo spiritualmente (come presupposto della bellezza che può essere percepita dai sensi) si basasse sul pensiero di Agostino, anche le opere dello Pseudo-Dionigi Areopagita, l’estetologo tra i Padri della Chiesa, raggiunsero una grande importanza. La educazione platonica e plotiniana di quel pensatore non ha sminuito il suo atteggiamento cristiano.

L’adozione del “Corpus Areopagiticum” attraverso la traduzione di Giovanni Scoto ebbe un’influenza decisiva sull’estetica medievale. Oltre ad Agostino, che si occupava della giustificazione del male, fu lo Pseudo-Dionigi a legittimare la preferenza medievale per la bellezza del brutto e del repulsivo. L’apprezzamento di tale bellezza presupponeva sia la concezione allegorica del bello che la convinzione di un ordine universale in cui il male e il brutto potevano essere compresenti.

Nel trattato di Giovanni Scoto “De divinis nominibus” (un’esposizione esaustiva dell’identità della perfezione e della bellezza dell’essere) (64), anche i demoni erano considerati “a modo loro” perfetti e quindi belli proprio per la loro deformità. Lo stesso valeva anche per gli animali immaginari, così come tutta la natura, compresi i corpi malati e deformi. Poiché tutte le cose sono create da Dio, esse non possiedono alcun difetto completo, perché questa condizione coinciderebbe con il non essere. Ma poiché il malformato partecipa all’essere, che è buono, in esso si rivela una perfezione relativa. Esso possiede una visibilità e quindi una bellezza propria.

In accordo con la visione della bellezza della deformità, nella dottrina di Dio i Dionisiaci consideravano teoricamente ammissibili solo le immagini brutte e poco attraenti; tali immagini di deformità potevano infatti dirigere l’anima verso la perfezione di Dio. La bellezza inadeguata degli esseri difettosi e malvagi doveva portare l’osservatore a cercare la bellezza e la perfezione assoluta e permettergli cosí di riconoscere Dio per analogia.

Secondo lo Pseudo-Dionigi, la diversità delle immagini percepibili aveva il compito di collocare il divino sul piano umano (65). Le espressioni deformanti di molte sculture all’interno e all’esterno delle chiese romaniche corrispondevano a questa visione. Esse si basavano sull’idea che, attraverso la contemplazione di questo mondo esterno, che enfatizzava il contenuto simbolico dei fenomeni mondani, l’anima arrivasse alla contemplazione del bello assoluto.

La dottrina medievale, quindi, non solo presupponeva un’identità di “bello” e “buono”, ma concepiva anche il brutto come la distorsione di una forma reale, alla cui presenza è legata la possibilità di realizzazione in una contro-immagine.

I concetti dell’estetica medievale, ai quali Giovanni Scoto (traduttore e interprete dello Pseudo-Dionigi) aveva fornito il fondamento teorico, rimasero significativi in Italia fino al XIV secolo e nel resto d’Europa fino al XV secolo. Così, anche per Ulrico di Strasburgo, Dio non era solo la misura assoluta della bellezza stessa, ma era anche la causa attiva, la causa esemplare e la causa finale di tutta la bellezza creata. Egli vedeva il mondo come completamente bello. Il brutto, secondo lui, o aveva qualcosa di bello, come nel caso delle deformità, o serviva a sottolineare la bellezza di ció che gli si opponeva. Divenne quindi abbastanza evidente per lui che anche le cose più brutte appartenessero alla bellezza dell’universo, in quanto, cioè, potevano anche possedere qualcosa di bello in natura, o comunque contribuire alla bellezza di altre cose per contrasto: «Cum etiam ea quae deformia sint, vel habeant aliquid pulchritudinis in se ut monstrua et mala poena vel saltem amplius extollant, pulchritudinem oppositorum ut defectus naturales vel peccatum in moribus, patet qualiter haec sunt de pulchritudine universi, scilicet inquantum pulchra sunt essentialiter vel occasionaliter, et qualiter non sint de pulchritudine eius, scilicet inquantum sunt privata pulchritudine» (66).

Nel XV secolo, l’erede spirituale dell’estetica cristiana medievale fu Dionigi Rickel, un teologo certosino fiammingo che scrisse ciò che era già stato pensato da tempo nella sua ampia opera “De venustate mundi et pulchritudine Dei”. Egli ha riaffermato l’idea medievale della bellezza percepibile come immagine di una bellezza soprasensibile. Secondo la sua filosofia, anche le opere d’arte in cui si riproduceva la bellezza delle cose naturali, rinunciando al brutto caratteristico, potevano partecipare come prodotti umani alla bellezza oggettiva dell’universo.

In contrasto con l’estetica italiana del Quattrocento, nel suo trattato “De remedio tentationem”, Dionigi rappresentò la concezione agostiniana e pseudo-areopagita della visibilità del male. Così, la bruttezza del male avrebbe dovuto illustrare il contrasto con il bene. Nella bellezza del deforme egli vedeva un contrasto dialettico che lasciava emergere la vera bellezza attraverso l’antitesi. Alla vista di una simile opera d’arte, l’anima di chi guardava doveva essere purificata dall’orrore del male.

Come ha mostrato Hans Robert Jauss, la rappresentazione del brutto nella letteratura medievale segue un canone rigoroso: il brutto è inteso come la manifestazione del male. La sua origine è l’antidivino, il diabolico (67). Il presupposto di tale atteggiamento è la concezione agostiniana delle due rispettive cittadinanze Civitas Dei e Civitas Diaboli. Così, come Dio, anche il suo avversario ha un popolo che gli appartiene.

Secondo la concezione cristiana, la distinzione tra i due regni doveva essere incessantemente predicata (68). Così nel Medioevo si sviluppò una tensione straordinaria. Il forte dualismo di una concezione che contrapponeva il regno di Dio al mondo peccaminoso permetteva di assorbire i sentimenti più elevati e puri nella religione, mentre gli istinti naturali, consapevolmente rifiutati, sprofondavano al livello di una mondanità disprezzata come peccaminosa (69).

Il mondo era visto come un grande contesto simbolico. Questo fatto creava la possibilità di apprezzare e godere comunque del mondo, che era di per sé riprovevole, e anche di valorizzare l’attività terrena (70).

Il Medioevo era un periodo di tensione, disintegrazione e riorientamento. Di conseguenza, quelle forze demoniache (che, fino a quel momento, erano state bandite nel sistema di credenze) acquisirono un nuovo potere. Fantastiche forme intermedie tra Dio e l’uomo apparivano dappertutto e l’idea della mescolanza satanica dei due regni sembrava diventare una realtà. La credenza nei demoni e la convinzione del potere onnipresente del male hanno cosí trionfato (71). Inoltre, ogni evento nella vita dell’uomo medievale era in sintonia con uno stile di vita plasmato dal mistero divino. La Chiesa era scossa, il clero corrotto, il diavolo regnava e lo stesso diavolo era temuto come Anticristo.

Tuttavia, Tommaso d’Aquino aveva già separato il contenuto morale religioso dallo sforzo artistico, sebbene equiparasse anche il bello al bene. Ma per lui questi due concetti erano diversi nel loro scopo: egli vedeva il bene nella vita virtuosa dell’uomo, mentre considerava il bello solo come un momento formale all’interno di una legge creatrice (72). Questa distinzione conteneva un programma che, nel corso del tempo, portò alla separazione della visione religiosa da quella artistica del mondo, nella misura in cui l’armonia artificiale non era più il riflesso di presupposti trascendenti, ma aveva la sua fonte nell’esperienza dei sensi (73).

Così, Leon Battista Alberti oppone un’interpretazione puramente fenomenica alla concezione metafisica della bellezza sostenuta da Marsilio Ficino.

Ficino definiva la bellezza come la chiara somiglianza dei corpi alle idee – «Pulchritudo in corporibus est expressior ideae similitudo» (74) – ovvero come la vittoria della ragione divina sulla materia. Al contrario, Alberti vedeva la bellezza come una concordanza di proporzioni e ordine, razionalmente determinabile, richiesta dalla legge assoluta della natura: «…statuisse sic possumus pulchritudinem esse quendam consensum et conspirationem partium in eo, cuius sunt, ad certum numerum, finitionem collocationemque habitam, ita uti concinnitas, hoc est absoluta primariaque ratio naturae postlarit» (75).

Alberti coglieva così la bellezza solo sulla base del suo aspetto esteriore e non riconosceva in essa alcun significato interiore. Tuttavia, egli non rinunció esplicitamente a una spiegazione metafisica della bellezza ma la soppresse solo tacitamente. Allo stesso tempo, egli considerava la pittura come un utile servitore della religione, poiché poneva le immagini degli dei davanti all’occhio mortale, e quindi stabiliva più fermamente la connessione tra il celeste e il terreno: «Et che la pictura tenga expressi li iddij quali siano adorati dalle genti, quaesto certo fu sempre grandissimo dono ai mortali, pero chi la pictura molto cosí giova ad quelle pietra per quäle siamo congiunti alli idij insieme et a tenere li animi nostri pieni di religione» (76).

Alberti ha così allentato il legame tra il bello e il buono, ma non l’ha spezzato.

Anche se i suoi contemporanei seguirono la definizione di Alberti, che determinò la teoria [ufficiale] dell’arte per più di un secolo, la giustificazione della realizzazione della bellezza rimase comunque un problema. Per risolvere la questione di come la rappresentazione della bellezza fosse possibile, non bastava aver trovato la caratteristica esterna del bello: il valore della bellezza doveva essere legittimato metafisicamente.

Nella ricerca del principio di cui l’armonia o la concordanza richiesta delle parti era solo un’espressione sensuale, si ricorreva a ogni tipo di speculazione metafisica, sia al sistema della scolastica medievale che al neoplatonismo rinato dal XV secolo. Così, seguendo la metafisica della luce, il bello fu nuovamente definito come il riflesso della bellezza divina. Inoltre, secondo Borghini, la bellezza fisica di una persona significava contemporaneamente la sua purezza spirituale (77). Così, il valore del bello stava nell’espressione visibile del bene. In accordo con questa visione, il fenomeno della bruttezza trovava anche una spiegazione metafisica nella “resistenza della materia”, che appariva come il principio della bruttura e del male (78).

L’ideale dell’umanesimo risiedeva nell’idealistica perfettibilità corporea-spirituale di tutti gli esseri umani. Così la bellezza era intrinsecamente legata alla perfezione e quindi consisteva in una manifestazione del bene. La contro-immagine della bellezza, la bruttura, era di conseguenza la manifestazione del male.

L’idea che l’anima e lo spirito modellassero l’aspetto fisico e l’espressione [della persona] ha portato a rigorose equazioni di fisiognomica. Classificazioni semplicistiche si manifestarono presto nelle vedute fisiognomiche popolari (79): così si era convinti che qualcuno fosse brutto perché cattivo.

Una volta stabilite le coordinate del bello e del perfetto, gli artisti del XVI secolo furono in grado di inventare un contro-mondo soggettivamente impostato sotto forma di un “tipo ideale” di deformità, la sproporzione delle misure, la somiglianza con gli animali e la deformità caratterizzata di ogni tipo.

2.4.2.

Il brutto come espressione del male.

Nella misura in cui il brutto deve entrare nell’ambito dell’estetica come forma indipendente, il male deve anche diventare direttamente efficace sotto il profilo estetico, cioè senza maschera (80). Lo smascheramento toglie infatti la possibilità, data fondamentalmente dalla discrepanza tra la perfezione interiore e quella esteriore, di nascondere l’apparenza dietro una maschera. Attraverso lo smascheramento, si elimina la possibilità di inganno e si scopre il brutto.

Allo stesso tempo, smascherare significa registrare una perdita di potere. Il potere è quella forza che impone agli altri la legge della sua volontà; per essere riconosciuto, richiede sempre una giustificazione. Nel Rinascimento, tuttavia, tale legittimazione fu rifiutata e il potere fu apertamente ricercato come tale; esso si fondava sulla mera efficienza dei potenti (81). In questo tipo di auto-deificazione, però, l’essere umano perdeva il suo scopo ed entrava in opposizione a ciò che avrebbe dovuto  essere, cioè al bene.

Inoltre, nell’arte cristiana il diavolo corrisponde all’immagine del male. Finché non appare come un tentatore in una bella forma, è rappresentato in modo repulsivo ed esorcizzante per mezzo del grottesco, in quanto malizioso e pericoloso. In tal senso, l’assenza del bene causa la deformazione.

Una doppia testa composta da un papa e da un diavolo che rappresenta il potere malvagio personificato smaschera così il falso splendore del papa stesso e smaschera la sua posizione esteriormente dignitosa. Il suo potere è rappresentato dalla connessione con il diavolo come potenza satanica, che è nulla rispetto al potere di Dio, perché quest’ultimo è il più forte in quanto principio del bene.

Tuttavia, vedere il papa come rappresentante o campione del male e spingerlo nel ruolo di perturbatore dell’ordine divino, l’avversario, era un grande passo. Per esempio, nessun sovrano laico nel X secolo avrebbe osato condannare il papa come rappresentante del male (82), sebbene a quel tempo sul trono papale ci fossero figure indegne. Dopo tutto, colui che rappresentava il potere dell’Altissimo si distingueva dalla folla per una certa altezza.

2.5.

La “Devotio moderna”.

Una visione più irriverente del Papa fu probabilmente resa possibile solo dalla “Devotio moderna”, un movimento ecclesiastico che iniziò nei Paesi Bassi alla fine del XIV secolo e si diffuse nel resto d’Europa e specialmente in Germania nel corso del XV secolo. Con esso, la frattura tra la chiesa come istituzione e la pietà si aprì completamente, poiché richiedeva una rinuncia alla teologia in favore delle virtù generalmente provate nella vita quotidiana. Per la “Devotio moderna”, non era tanto Dio ad essere la base, quanto la sensibilità e le esperienze umane. L’importanza della “Devotio moderna” risiede soprattutto nella pratica della vita spirituale (83) e nella pietà centrata su Cristo.

Tra le opere più influenti della letteratura spirituale di questo tempo c’è l’“Imitatio Christi”. Questo libro non è solo l’opera più diffusa all’interno della “Devotio moderna”, ma – dopo la Bibbia – il libro della letteratura mondiale più letto in assoluto (84).

Esso propaga l’umiltà e la pace interiore, che deve essere raggiunta attraverso il disprezzo del mondo e la conquista di sé. Afferma inoltre che il regno di Dio è dentro l’uomo stesso. Perciò, tutto ciò che è esterno dovrebbe essere disdegnato; esso si esigeva una devozione all’interno.

Il contrasto tra lo spirituale e il materiale, l’interno e l’esterno, è stato il tema dominante, con il quale è stata fatta una critica acuta all’esternalizzazione della pietà tardo medievale. Già qui iniziò la lotta contro l’acquisizione di beni spirituali per denaro o per il valore del denaro e contro l’inosservanza del voto di povertà da parte dei religiosi.

2.5.1.

I papi del Rinascimento.

L’età del Rinascimento e i papi rinascimentali hanno poi intensificato i sintomi della crisi [religiosa]. Senza prendere in considerazione la situazione data, lo Stato della Chiesa si è sviluppato sempre più come rappresentazione della Chiesa. I compiti effettivi del papato passavano cosí in secondo piano rispetto alla politica e, quindi, alla rivendicazione del potere mondiale.

Durante diversi pontificati italiani il compito più urgente fu quello di tenere a distanza la Francia e la Spagna. L’espansione dei territori di queste due potenze doveva essere impedita. L’aiuto più importante per tale obiettivo furono le “censure ecclesiastiche”; a tale scopo, l’imposizione dell’“interdetto” poteva infatti interrompere gravemente il commercio o addirittura permettere il sequestro di beni stranieri.

Inoltre, i papi del Rinascimento mostrarono di solito una propensione molto costosa alla rappresentazione esagerata [del loro potere], il che rese inevitabile lo sviluppo del sistema di tassazione. L’avidità del clero, la falsità e la depravazione dei monaci, ogni accumulo di benefici che ostacolava il servizio divino in quanto tale, le frodi dei mercanti di indulgenze e in breve, la corruzione del clero sono probabilmente meglio descritti dal termine “decadenza del cristianesimo” (85).

Sarebbe comunque troppo unilaterale giudicare la gran parte dei papi rinascimentali esclusivamente in modo negativo. Anche se l’immoralità era uno stigma legato a quel tempo, l’importanza dei papi come promotori di cultura deve essere sottolineata in senso positivo.

Questa realtá fece sì che i contemporanei giudicassero il comportamento dei papi in modi diversi; le lodi o le colpe dipendevano dai diversi punti di vista dei rispettivi critici. È quindi comprensibile che i papi siano stati giudicati in modo molto diverso dagli artisti piuttosto che dai riformatori.

Le dichiarazioni di Vasari sui singoli papi ne sono la testimonianza.

Nella biografia di Bernardino Pinturicchio, Vasari cita Pio II: il problema principale del suo regno fu il tentativo fallito di coalizzare l’Europa contro i turchi, che avevano conquistato Costantinopoli nel 1453. Inoltre, l’influenza di questo umanista come scrittore, pubblicista e poeta fu significativa. Vasari tesse grandi lodi di questo papa; infatti, nella descrizione della decorazione della biblioteca della cattedrale di Siena (che, come egli ricorda, fu fondato dal papa) (86), sottolinea in particolare il decimo quadro: secondo lui, quella rappresentazione mostra Pio II che muore ad Ancona mentre equipaggia una formidabile armata contro i Turchi mentre il suo corpo viene portato da Ancona a Roma con l’onorevole scorta di innumerevoli signori e prelati che piangono la morte di un tale uomo, un Papa così raro e santo: «Nella decima ed ultima, preparando papa Pio un’armata grossissima con l’aiuto e favore di tutti i principi cristiani contra i Turchi, si muore in Ancona, ed un romito dell’eremo di Camaldoli, Santo uomo, vede l’anima d’esso Pontefice in quel punto stesso che muore, come anche si legge, essere da angeli portato in cielo. Dopo si vede, nella medesima storia, il corpo del medesimo essere da Ancona por-tato a Roma con orrevole compagnia d’infiniti signori e prelati, che piangono la morte di tanto uomo e di si raro e Santo Pontefice» (87).

Mentre, nella successione di Pio II, la serie di papi rinascimentali diede ai riformatori motivo di indignazione, Vasari si astenne da qualsiasi critica nei loro confronti.

Nella biografia di Raffaello da Urbino, egli ricorda che un destino invidioso privò della vita Giulio II, lui che era stato promotore di tanto talento e amico di ogni buona causa: «Mentre che la felicitá di questo artefice faceva di se tante gran maraviglie, la invidia della fortuna privó della vita Giulio II, il quale era alimentatore di tal virtú ed amatore d’ogni buona» (88).

La valutazione del Vasari era ovviamente determinata dal fatto che Giulio II era appassionato d’arte; egli aveva chiamato a Roma artisti come Bramante, Raffaello e Michelangelo e aveva iniziato la costruzione della chiesa di San Pietro a Roma nel 1506. Per contro, Giulio II era anche entrato in violento conflitto con Venezia, che fu infine sottomessa dalla “Lega di Cambrai”; inoltre, con Venezia, Spagna e Inghilterra nella “Lega Santa”, egli si rivolse contro i francesi e ottenne la loro espulsione dall’Alta Italia. Nonostante ció, quando Vasari mette sullo stesso piano la grandezza di un Giulio II e la nobiltà di un Leone X, non si sente un atteggiamento critico verso le attività belliche di quel papa: «…la grandezza di Giulio II e la generositä di Leone X…» (89).

Vasari ritenne di mitigare le sue altrimenti abituali espressioni elogiative solo quando fu scelto un papa che, a differenza dei suoi predecessori, non appariva come un patrono delle arti. Così, infatti, egli lamentava che, dopo la morte di Leone X, le belle arti e gli altri talenti non avessero posto a Roma e che, con l’elezione di papa Adriano VI, tutte le opere pubbliche iniziate dal suo predecessore fossero rimaste incompiute: «… e così anco mancato papa Leone, per non avere più luogo in Roma l’arti del disegno ne altra virtu… (90)….perché creato nuovo pontefice Adriano, e tornatosene il cardinale de’Medici a Fiorenza, restarono indietro insieme con questa tutte le opere pubbliche cominciate dal suo antecessore» (91).

Vasari tenta di spiegare la situazione disperata degli artisti sotto Adriano VI (che, nelle sue parole, non era interessato a dipinti, sculture o altro), «… Adriano, come quello che ne di pitture o sculture ne d’altra cosa buona si dilettava…» (92), sostenendo apertamente che durante la sua vita sono quasi morti di fame: «Disperati adunque Giulio e Giovan Francesco, ed insieme con esso loro Perino del Vaga, Giovanni da Udine, Bastiano Viniziano e gli altri artefici eccellenti, furono poco meno (vivente Adriano) che per morirsi di fame» (93).

Vasari non si accontenta di affermare che la corte [papale], abituata alla grandezza di Leone X, era abbastanza “compressa” e i migliori artisti meditavano dove trovare un rifugio perché vedevano che nessun talento era più apprezzato. Al contrario, egli sostiene che fu solo con la morte di Adriano che fu di nuovo assicurata la fioritura delle arti, perché con Clemente VII, le belle arti hanno ripreso vita assieme alle altre virtù: «Ma, come volle Dio, mentre che la corte avvezza nelle grandezze di Leone era tutta sbigottita, e che tutti i migliori artefici andavano pensando dove ricoverarsi, vedendo niuna virtú essere piti in pregio, mori Adriano, e fu creato sommo pontefice Giulio cardinale de’Medici, che fu chiamato Clemente VII, col quäle risuscitarono in un giorno, insieme con l’altra virtú, tutte l’arti del disegno» (94).

Altrove Vasari ribadisce come l’elezione di papa Clemente VII abbia restituito aria fresca all’arte della pittura e della scultura, che erano state trascurate durante la vita di Adriano. questi non solo non la commissionava ma non si interessava affatto ad essa; anzi, la odiava e non consentiva che altri vi si interessassero, spendessero denaro per essa o assumessero un artista: «Fu 1’anno 1523 creato papa Clemente VII, che fu un grandissimo refrigerio all’arte della pittura e della scultura, state da Adriano VI, mentre che ei visse, tenute tanto basse, che non solo non si era lavorato per lui niente, ma non se ne dilettando, anzi piuttosto avendole in odio, era stato cagione che nessun altro se ne dilettasse o spendesse o trattenesse nessun artefice, come si e detto altre volte» (95).

Tuttavia, egli non ricordò che, nonostante le capacità diplomatiche, Clemente VII non sia stato all’altezza dei compiti del suo ufficio al tempo dell’inizio della Riforma: egli infatti si era schierato inizialmente con la Francia e, dopo il “Sacco di Roma” e la Pace di Barcellona, con Carlo V e non fu in grado di impedire lo scisma dell’Inghilterra da parte di Enrico VIII.

Le osservazioni di Vasari su Papa Paolo IV sono simili: egli trova da ridire sul fatto che egli non nutrisse interesse per le arti e, nella biografia di Perino del Vaga, riporta che il poeta Francesco Maria Molza (favorito dal cardinale Alessandro Farnese) e molti altri amici esortavano l’artista ad avere pazienza, dicendogli che non era più la vecchia Roma; soprattutto, i rappresentanti delle belle arti avrebbero dovuto essere stanchi e stanchi di quella città prima di essere di nuovo scelti da essa: «Pure il Molza e molti altri suoi amici lo confortavano ad aver pacienza, con dirgli che Roma non era piü quella, e che ora ella vuole che un sia stracco ed infastidito da lei, innanzi ch’ella l’elegga ed accarezzi per suo, e massimamente chi segue l’orme di qualche bella virtù» (96).

In un altro luogo Vasari riferisce che, non essendo interessato alla pittura, Paolo IV rifiutò la richiesta del cardinale di Carpi di completare la “Sala dei Re”, dicendo che sarebbe stato molto meglio fortificare Roma che spendere soldi in quadri: «Morto papa Giulio III, e creato sommo pontefice Paolo IV, il cardinale di Carpi cercó che fusse da Sua Santitä data a finire a Daniello la detta sala dei Re; ma non si dilettando quel papa di pitture, rispose essere molto meglio fortificare Roma, che spendere in dipingere» (97).

Di nuovo, Vasari si concentra sulla mancanza di apprezzamento dell’arte. Il fatto che Paolo IV fosse l’anima dell’Inquisizione, invece, passa in secondo piano.

La valutazione del Vasari sulla personalità dei papi si basava quindi principalmente sul fatto che… fossero benevoli e favorevoli alle arti, o che non vi attribuissero alcuna importanza.

2.5.2.

Critica degli abusi della chiesa.

Sebbene l’influenza dei papi rinascimentali nell’area della cultura sia da valutare positivamente in accordo con Vasari, le aberrazioni nell’area morale e religioso-politica di questi regnanti non possono rimanere inosservate. La loro presunzione e l’amore per la gloria erano contrari alla dottrina cristiana dell’umiltà; essi si comportavano come i grandi di questo mondo, ai quali la miseria umana era estranea. Non puó sorprendere, quindi, che le critiche alle condizioni ecclesiastiche non tardassero ad arrivare.

In Italia, per esempio, il monaco domenicano Savonarola si rivoltò contro il culto basato solo sulle esteriorizzazioni: in generale, egli considerava il clero [del suo tempo] molto più capace di distruggere che di costruire la vita cristiana.

Ma anche altrove la gente era critica nei confronti dell’autorità del papa e chiedeva la fede “con” la chiesa, non “alla” chiesa. La differenza tra le leggi divine e quelle meramente ecclesiastiche era enfatizzata, il papa era ancora visto come il rappresentante di Cristo ma, allo stesso tempo, era giudicato come un uomo peccatore e mortale (98).

Nonostante tutto questo, i critici rappresentanti di un umanesimo moralizzante erano ancora una espressione abbastanza interna al regno della Chiesa, di cui volevano la riforma sostanzialmente solo sotto l’aspetto della conservazione del vecchio ordine.

2.5.3.

Erasmo da Rotterdam.

Anche se Erasmo da Rotterdam aveva criticato sarcasticamente le condizioni ecclesiastiche, prese comunque le distanze dalla lotta aperta da Lutero contro le istituzioni papali, anche perché lo stesso Erasmo si sforzava di ritornare agli inizi del cristianesimo, soprattutto dal punto di vista etico.

Risalendo alle Sacre Scritture e ai Padri della Chiesa, chiarezza e semplicità erano il suo obiettivo. Egli non vedeva la perfezione cristiana in uno status speciale o in paramenti sacri e quindi criticava le molte cerimonie della chiesa. Anche la teologia in quanto tale e i costumi del clero e dei monaci non furono risparmiati dai suoi attacchi. Nel suo libro più famoso, “Lob der Torheit” (Elogio alla follia), tra le altre cose, attaccò satiricamente l’intolleranza religiosa e la sopravvalutazione dei dogmi ecclesiastici.

Inoltre, egli vedeva nei mezzi di espressione dell’arte e della teologia la possibilità di un doppio significato. Per lui, tutto era ambiguo, l’esterno nascondeva l’interno, in quanto solo gli stupidi portavano le loro opinioni in faccia, mentre i saggi parlavano cautamente con lingue biforcute (99).

L’espressione pittorica adeguata di tutte queste idee è probabilmente costituita dalle medaglie a due teste; le teste degli ecclesiastici non mostrano necessariamente gli aspetti riprovevoli del clero rappresentati ed esemplificati da loro, soprattutto perché i loro tratti neutri raramente esprimono emozioni (100).

Che parlino con la lingua biforcuta è evidenziato dalla doppia testa in quanto tale e, in particolare, dal modo in cui le due teste opposte si uniscono, vistosamente nella zona della bocca, rende possibile l’espressione linguistica. Una sola bocca per due facce costituisce un’indicazione piuttosto chiara della doppia mentalità del personaggio rappresentato.

Erasmo ha aggiunto l’essenza dell’ambiguità concludendo che la bellezza esteriore, proprio come la bruttezza repulsiva, appare solo come un miraggio: in realtà, poiché non esiste un’affermazione oggettivamente univoca, tutto dipende dal contesto. Così, ancora una volta, vedeva la necessità della figura come norma, sulla base della quale solo il deforme poteva essere misurato.

Di conseguenza, l’anticristianità del papa, cioè la sua mancanza di forma, potrebbe essere misurata solo contro la vita esemplare di Cristo, cioè come il buon pastore di cui il papa dovrebbe comunque essere il successore. Misurate da Cristo, però, queste persone non possono più essere chiamate sante, perché lo sarebbero solo per una vita moralmente perfetta che le unisse a Dio.

Ancora, nelle medaglie beffarde l’effetto del cambiamento dalla santità all’ipocrisia è espresso in modo eccellente dalle doppie teste.

Inoltre, esse rappresentano la tesi di Erasmo per cui ognuno vede solo quello che vuole vedere, dato che le doppie teste non sono definite chiaramente: esse ci permettono, infatti, di vedere allo stesso tempo l’altro nell’uno. All’inizio appaiono come teste dal giusto carattere, alle quali non si attribuirebbe necessariamente il diabolico. Le prime apparenze sono peró ingannevoli perché, quando le giri, tutta la finzione dei personaggi viene alla luce: cosí essi possono essere associati senza sforzo alle potenze di cui sono al servizio dimostrandosi sciocchi o addirittura creature del diavolo.

Usate in questo senso dai riformatori come mezzo di propaganda contro la Chiesa cattolica, le medaglie non mancarono di ottenere il loro effetto. Una medaglia di derisione antipapale del 1543, per esempio, provocò l’indignazione del gesuita Gretser. Sul dritto è raffigurata una doppia testa di cardinale con giullare con l’iscrizione «DES BAPST GEBOT IST WIDER GOT» (il potere del vescovo è piú ampio di quello di Dio). Sul rovescio, un vescovo è unito all’indietro con una figura femminile che tiene un candeliere e un libro; l’iscrizione recita «FALSCH LEHR GILT NICHT MEHR» (l’apprendimento falso non si applica più) (101).

Estremamente arrabbiato, Gretser reagì alla vista di questa moneta-medaglia: «Mi scandalizzo quando penso alle immagini che ho visto, e mi vergogno che i nostri tempi siano stati contaminati con invenzioni così oscene. Mentre scrivo questo, ho in mano e contemplo una moneta d’argento che devo supporre sia stata coniata nell’officina di Satana nell’anno 1543».

In realtà, il suo disappunto fu causato dall’iscrizione che si legge sul retro della medaglia, che lo spinse a ribadire quanto la dottrina cattolica fosse apprezzata anche a quel tempo: «Mentre la falsa dottrina non è mai stata più stimata di adesso, dopo che gli apostati hanno inventato una nuova dottrina e nuove monete» (102).

Inoltre, Gretser tentò di confutare l’attacco alla Chiesa cattolica mettendo in relazione la doppia rappresentazione di cardinale e di sciocco con i riformatori. Nella sua descrizione della moneta, afferma: «Rappresenta un cardinale su un lato, e se si gira la testa, diventa un luterano, cioé un pazzo» (103).

Non c’è comunque dubbio, tuttavia, che la medaglia non alludeva ai “luterani” ma al papato. Peraltro, Gretser poteva associare la medaglia a due teste ai riformatori solo perché si trattava di immagini fantasiose e non di effigi, per cui i dignitari ecclesiastici non potevano essere oggettivamente identificati proprio grazie alla loro rappresentazione astratta sulle medaglie a due teste.

Tuttavia, una medaglia satirica dorata (104) potrebbe costituire comunque un’eccezione, poiché essa si riferisce a Lutero con i nomi “Lutero” e “Katharina” incisi sul suo rovescio. Ma l’incisione non è coeva alla rappresentazione (105) e la tipologia artistica sul dritto assomiglia a una medaglia un po’ più piccola che, se non puó essere effettivamente considerata come opera autentica di Peter Flötner, era stata creata “alla sua maniera”, come sottolinea Georg Habich (106). Anche su questa medaglia senza iscrizioni si può vedere l’immagine a doppio petto di due frati di un ordine monastico. Entrambi sono “ingrossati”  in modo che le estremità delle loro guance pendano dalla bocca; il monaco in primo piano nasconde anche una bottiglia nel suo cappuccio. Ovviamente entrambe le medaglie avevano lo scopo di deridere lo stile di vita dei monaci in generale.

Tra le medaglie conosciute oggi non ce n’è nessuna che si riferisca direttamente a Lutero.

Le medaglie a due teste, quindi, mantengono un certo rispetto del clero poiché, a prima vista, i personaggi rappresentati non differiscono da semplici ecclesiastici che si sforzano di praticare modi cristiani; solo lo smascheramento causa il riconoscimento della loro anticristianità e li rende ripugnanti. Solo ora la dignità viene sacrificata allo scetticismo sulla loro personalità. L’immagine esteriore denuncia, attraverso l’imbruttimento, la loro falsità interiore.

Così come per Erasmo non c’era nulla di univoco, anche le medaglie mostrano il tutto nell’ambiguità: nelle doppie teste le due valutazioni così opposte sono paradossalmente unite in una stessa persona. In tal senso, concetti come “bene” e “male”, “santo” e “perfetto” nel regno umano non devono essere considerati valori assoluti dato che, in tutta la varietà delle sue forme, l’essere umano prevede anche la possibilità di essere cattivo.

Non è senza motivo che l’idea della morale che appare fin dall’inizio nella doppia forma di “bene” e “male”, includa, fin dall’inizio, la possibilità dell’ingiustizia e della colpa come insegnamento al bene.

Così la maschera del male si riferisce ai papi come ai cardinali, anche se li rappresenta in forme diverse. L’uomo, impigliato nei lacci del diavolo, non è libero, mentre lo stolto gode della LIBERTA’.

Note.

1.

Vasari, Giorgio: Edizione Milanesi, op. cit., vol. IV, pp. 426 ss.

2.

Vasari, Giorgio: Edizione Milanesi, op. cit. vol. VIII, p. 241.

3.

Lomazzo, Giovanni Paolo, op. cit. i, 2.

4.

cfr. cat. della mostra, Norimberga 1979, op. cit., p. 154.

5.

Fig. 1-21 b.

6.

Gretser, Jacob, op. cit., p. 1976, testo originale: latino; citato da Schnell, Hugo, op. cit., p. 17.

7.

cfr. cat. della mostra, Berlino 1977, op. cit., p. 85.

8.

Figg. 22-26 b.

9.

cfr. Schnell, Hugo, op.cit., p.45.

10.

Fabriczy, Cornelius von, op.cit., p. 9.

11.

s. Ill.

12.

cfr. cat. della mostra, Amburgo 1983, op. cit., p. 164 e Cat. della mostra, Utrecht 1981, op. cit., p. 29.

13.

s. Figg. 27 a – 31 b.

14.

Fig.32 – a proposito, questo non si trova presso la Alte Pinakothek, come affermato da R.W. Scribner, op. cit., p. 166, ma nella Staatliche Graphische Sammlung, Monaco.

15.

Fig. 33.

16.

Fig. 34.

17.

Fig. 7 a/b.

18.

cfr. Habich, Georg, op. cit., vol. II, 1a metà, p. 285.

19.

cfr. fig. 2 a/b.

20.

cfr. fig. 6 b.

21.

cfr. fig. 4 a.

22.

cfr. fig. 35 a/b.

23.

cfr. Curtius, E.R., op. cit. p. 94 – 98.

24.

Scribner, R.W., op. cit. p. 164.

25.

Cfr. Bakhtin, M., op. cit. p. 11 e Mezger, W. e altri: Narren, Schellen und Marotten, op.cit.

26.

Scribner, R.W., op. cit. p. 164.

27.

Joh. 2,18; 4,3; 2.Joh. 7.

28.

Matteo 24, 23 e 24.

29.

Ep. l.Tess. 4; Ep. 2.Tess. 2; Ep. l.Tim. 4.

30.

Koselleck, R., op. cit. p. 362.

31.

Ibidem, p. 2o.

32.

Fig. 36 a/b.

33.

Lascault, G., op. cit. p. 51, 189, 194, 248-25.

34.

Lefebvre, J., op. cit. pp. 88-9o.

35.

Cfr. per esempio Es 4, 24-26; Mal I, 2-5; Os II, 7-9.

36.

Barth, H.M., op. cit. p. 117.

37.

Cfr. Schrade, Hubert, op. cit. p. 72.

38.

cfr. Schrade, Hubert, op. cit. p. 214.

39.

Kettler, Walter, op. cit. p. 47.

40.

Volz, P., op. cit. p. 4.

41.

Obermann, Heiko A., op. cit., p. Io9 s.

42.

Le opere di Martin Lutero, op. cit. vol. 6 n. 6832; 219, 3o-4.

43.

Le opere di Martin Lutero; sezione Opere, op. cit. Vol. 54. 187, 3-5.

44.

Leeuw, G.v.d., op. cit. p. 141.

45.

Semmelroth, Otto, op. cit. p. 35.

46.

Ivi, p. 4.

47.

cfr. Küster, J.: Der Narr als Gottesleugner, in: Mezger, Werner u.a., op.cit., p. 97 ss.

48.

cfr. Könneker, B., op. cit., p. 251.

49.

Schuster, Peter-Klaus, op. cit.

50.

Melot, Michel, op. cit. p. 22.

51.

Cfr. Rosenkranz, Karl, op. cit.

52.

Wiegand, Anke, op. cit. p. 17.

53.

Socrate, Senofonte, III, lo, I, in:. Overbeck, J., op. cit. n. 17ol.

54.

Panofsky, Erwin: Idea, op. cit. p. 5 3.

55.

Cicerone, Orator ad Brutum II, in: Overbeck, J., op. cit., n. 717.

56.

L.A. Seneca, ep. 68 ed ep. 28, citato in: Perpeet, W., op. cit., p. 12 2.

57.

Misch, G., op. cit. p. 438 f.

58.

Perpeet, W., op. cit. p. 14.

59.

Tertulliano, Apologeticum, 48, 9; citato da: Perpeet, W., op. cit. p. 19.

60.

Agostino, Confessiones X, 34 (ed. Knöll), citato dopo: Panofsky, Erwin: Idea, op.cit., p. 81, nota 67.

60.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 18.

61.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 43 f.

62.

Scoto, Giovanni: Super ierarchiam celeste Sancti Dionysii I, I; cit. dopo: Assunto, R.,

op. cit., p. 189.

63.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 84.

64.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 91.

65.

Ulrich di Strasburgo: Summa de bono II 3 IV, De pulchro, in: Assunto, Rosario, op.cit.

66.

Jauss, H.R., op. cit. p- 154 2.

67.

Best, O.F., op. cit. p. 2.

68.

Huizinga, J.: Autunno del Medioevo, op. cit. p. 251 s.

69.

Ibidem, p. 292.

70.

Best, O.F., op. cit.”, p. 5.

71.

cfr. su questo: Wulf, M. de, op. cit.

72.

Dvoräk, Max, op.cit., p. 127.

73.

Ficino, Opera II, p. 1576, citato da: Panofsky, Erwin: Idea, op. cit.

74.

Alberti, Leone Battista: De re aedificatoria, IX, 5.

75.

Alberti, Leone Battista, op. cit. p. 89.

76.

Borghini, Raffaello, op. cit. p. 122.

77.

Panofsky, Erwin: Idea, op. cit. p. 53.

78.

Schmolke-Hasselmann, Beate, op. cit.

79.

Wiegand, Anke, op. cit., p. 87.

80.

ibid., p. 55.

81.

Wolf, Gunther, op. cit., p. 413.

82.

Jedin, Hubert, vol. III/2, op. cit.

83.

Ijedin, Hubert, vol. III/2, op. cit. p. 535.

84.

Nigg, Walter: Painter of the Eternal, op. cit.

85.

Vasari, Giorgio, vol. I, op. cit.

86.

ibidem, p. 915.

87.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Raffaello da Urbino, op. cit. p. 145.

88.

Ibidem, p. 168.

89.

Vasari, Giorgio, vol. III, Vita di Giovanni da Udine, op. cit. p. 222.

90.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Giulio Romano, op. cit. p. 575.

91.

Ibidem, p. 576.

92.

Ibidem.

93.

Ibidem.

94.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Perino del Vaga, 3 – 3 – 0 – ? S• 636.

95.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Perino del Vaga, op. cit.”, p- 646.

96.

Vasari, Giorgio, vol. III, Vita di Daniello Ricciarelli da Volterra, op. cit.”, p. 342.

97.

Jedin, Hubert, vol. III/2, op. cit. p. 7o6.

98.

Cat. della mostra Köpfe der Lutherzeit, op. cit., p. 14.

99.

cfr. per esempio le figg. 1 e 2.

100.

Fig. 35 a/b.

101.

Gretser, Jacob, op. cit., p. 1796, testo originale: latino; citato da Schnell, Hugo, op. cit., p. 44.

102.

Gretser, Jacob, op. cit. p. 1796, testo originale: latino; citato dopo Schnell, Hugo, op. cit. p.44.

103.

Fig. 37 a/b.

104.

cfr. Schnell, Hugo, op. cit., p. 48.

105.

Fig. 38

106.

Habich, Georg, op. cit., 1° vol., 2° metà, p. 26o.

Fin dal Medioevo, l’arte cristiana ha conosciuto la realizzazione di maschere grottesche, principalmente per scongiurare ed esorcizzare le forze del male. A partire dal XV secolo circa, invece, la grottesca distorsione del volto umano è stata usata per dileggiare i dignitari della chiesa e dello stato nelle controversie politiche, sociali e teologiche dell’epoca. In questo contesto, la maschera non serviva a nascondere, ma a rivelare il presunto male sotto forma di nemico.

Il soggetto principale di quest’opera sono le medaglie a doppia testa, in cui papi e cardinali si trasformano in diavoli e buffoni stolti ribaltandoli. Il fulcro dell’indagine sono i motivi del “brutto” e le loro contro immagini del sacro e del perfetto. Nel contesto delle questioni iconografiche, storico-religiose ed estetiche, le opere vengono messe in relazione con gli scritti originali del XV e XVI secolo al fine di elaborare la differenza tra gli aspetti teologici e la concezione umanistica dell’arte. Opere di Leonardo da Vinci, Dürer, Grünewald e soprattutto il mondo delle immagini di Bosch sono indagate come rappresentative del lavoro artistico in Italia, Germania e Paesi Bassi. Nella concezione della manieristica arte, il piacere del deforme e l’aspetto fantastico del brutto giocano sempre più il ruolo della curiosità priva di valore, così che le medaglie a doppia testa non devono essere viste solo secondo l’aspetto morale della raffigurazione del male ma anche da un punto di vista giocoso.