La maschera del male; la fisionomia grottesca come contro-immagine del sacro e del perfetto nell’arte del XV e XVI secolo.

di Christine Winkler

Versione italiana delle prime 63 pagine di “Die Maske des Bösen; Groteske Physiognomie als Gegenbild des Heiligen und Volkommenen in der Kunst des 15 und 16 Jahrhunderts”, Beiträge zur Kunstwissenschaft, Bd. 8, München, 1986.

A cura di Alessandro Ubertazzi.

Marzo 2021.

1.

Introduzione.

Le medaglie “a due teste” sono l’oggetto di questo lavoro. Anche se esse non sono assolutamente da considerare come casi isolati o fenomeni casuali (dal momento che si sono diffuse a livello internazionale); la letteratura le ha finora trattate solo raramente e non è giunta al di là di una classificazione formale di “monete nel campo della satira riformista”. Pertanto, si cercherà ora di definirle più precisamente per quanto riguarda la loro origine, il loro significato e i loro aspetti artistici.

Si tratta del concetto di “brutto” nell’arte del XV e XVI secolo, delle sue giustificazioni iconografiche, storico-religiose e artistiche e delle sue contro-immagini: il sacro, il perfetto. In tal senso, gli scritti originali, che hanno accompagnato nel tempo il cambiamento nella interpretazione del brutto nell’arte pittorica, sono stati esaminati per comprendere le espressioni estetiche in relazione al sacro e al brutto e confrontati con lo studio sui monumenti. In realtà, tali considerazioni sono servite come prerequisito necessario per distinguere tra l’aspetto teologico e la visione artistica che, per quanto riguarda la connessione tra il sacro e il brutto, che si è sviluppato nel periodo umanistico.

In questo contesto, le rappresentazioni della satira sviluppatesi all’interno della Riforma saranno approfondite nelle immagini capovolte sulle medaglie in quanto sottolineano l’ambiguità dell’uomo e soprattutto della condizione spirituale di quel tempo.

La diabolica molteplicità di volti animali o umani che comprende le opere dell’arte lapidaria greco-romana, è servita allo stesso scopo: in realtá, le connessioni tra l’uomo e l’animale, già note dalle ricerche fisiognomiche dell’antichità e che si ritrovano giá nelle favole di animali e nelle drolleries medievali, riprendono il tema della codificazione dei caratteri umani.

Le “creature miste” non furono finalizzate solo da Lutero e Melantone in pamphlets contro il papato e il monachesimo ma furono anche usate dalla parte cattolica come strumento di lotta per ridicolizzare il nemico. Tali critiche sono spesso riferite a parabole cristiane o associate a eventi e persone della storia biblica, così che le lamentele evidenziate nelle rappresentazioni si riferiscono spesso a profezie divine per l’avvento del Giudizio Universale.

Come ulteriore variante all’interno del motivo delle “creature miste”, il papa è stato visto come un “uomo selvaggio”. Inoltre, le facce costituite dagli oggetti piú diversi (secondo lo stile di Arcimboldo) servivano allo scopo di deridere gli antagonisti. La stessa tendenza è stata seguita da quelle rappresentazioni che descrivevano l’avversario non con una mescolanza di animale e umano ma con la distorsione dei tratti umani naturali.

Lo scopo di questo lavoro non è stato quello di riproporre la storia sufficientemente nota della Riforma, né di discutere la tipologia della battaglia mediante le immagini di quel tempo in tutti i suoi dettagli ma di mostrare le varie relazioni tra il sacro e il brutto per mezzo di casi esemplari, al fine di comprendere il ruolo del grottesco, nella misura in cui si trova in connessione con il sacro e il perfetto.

Per chiarire i vari punti di partenza, i presupposti e le intenzioni della rappresentazione della bruttezza e della distorsione della fisionomia umana e le sue contro-immagini, sono state selezionate opere di Leonardo da Vinci, Dürer, Grünewald e, in maniera particolarmente dettagliata [è stato indagato], il mondo pittorico di Bosch come rappresentativo della creazione artistica in Italia, Germania e Olanda. Nella loro ricerca di una nuova visione del mondo, tutti i suddetti artisti si sono ugualmente ispirati alla natura dei tratti del viso o, in un senso più ampio, al modellamento dell’intero corpo umano e delle sue parti come riferimento fisico per il carattere spirituale dell’anima e del carattere.

Tuttavia, come sarà dimostrato, le loro rappresentazioni (che non possono assolutamente essere intese dall’osservatore come semplici immagini di paura) si basano sui punti di vista più diversi.

Dato che la contro-figura delle fisionomie grottesche si rivela per la prima volta nella figura di Cristo, la letteratura che tratta la sua figura e il problema estetico della bellezza costituiscono la fonte più importante di quelle immagini. Per quanto riguarda la figura di Cristo, occorre ricordare che gli scritti dei più antichi Padri della Chiesa (come quelli di Sant’Agostino ma anche le opinioni di Tommaso d’Aquino) erano ancora condivise da Suarez nel XVI secolo: occorre infine ricordare la svalutazione stoica del bello, discussa dagli apologeti cristiani. Fra i pensatori delle antiche dottrine sono ancora da citare Agostino e Dionigi Pseudo-Areopagita, oltre all’alta estetica scolastica che costituisce la base della estetica cristiana.

Indipendentemente dai diversi punti di vista degli artisti, Cristo si rivela nella perfezione della sua rappresentazione come antitesi delle fisionomie grottesche: così la malignità degli uomini, espressa nella distorsione dei loro lineamenti, si contrappone al sacro.

Sebbene anche i papi e i cardinali siano espressioni di Dio, essi sono raffigurati in modo molto più irrispettoso di Cristo; le varie medaglie fuse che rappresentano le doppie teste di papa-diavolo o cardinale-buffone ne sono un esempio.

Il significato delle “doppie teste papa-cardinale” richiede l’esame delle diverse ipotesi sull’esistenza del diavolo e sul significato del buffone. Dal momento che le teste dei pazzi e dei diavoli sono considerate come espressioni del brutto, occorre cosí determinare la misura estetica del brutto. Il disprezo del Papa come rappresentante del male è possibile solo dopo determinazione del brutto.

Va infine chiarito che le medaglie a due teste non sono solo da ritenere come una critica agli abusi della chiesa, che inizia già all’interno della “Devotio moderna”: un ruolo importante, infatti, è giocato dal piacere per il piccolo formato, che fa apparire curioso il brutto senza valore e preferire l’ambiguo, l’artificiale e l’innaturale, che portano inevitabilmente all’aspetto fantasmatico del brutto.

Attraverso l’esame dell’espansione della sensibilità estetica nel periodo del Manierismo, è ovvio che l’interpretazione delle medaglie a due teste porta oltre l’ambito della satira espresso dalla Riforma.

Le medaglie saranno giudicate non solo in base al loro aspetto moralizzante, ma anche per quanto riguarda la loro giocosità artistica.

2.

Medaglie a due teste.

2.1.

Presupposti per l’emergere di medaglie beffarde.

Nei secoli XV e XVI, l’arte della medaglia, da un lato, e l’invenzione della stampa, dall’altro, furono di grande importanza: questi due mezzi di espressione permisero, infatti, il rapido annuncio degli eventi del tempo e un’ampia diffusione delle opinioni politiche e religiose. Proprio per questo si riscontra una connessione non solo temporale ma anche fattuale tra il periodo d’oro delle medaglie e la Riforma.

Nei secoli precedenti, le medaglie erano poco conosciute nel loro significato di monete commemorative senza corso legale, così che, per esempio, i denari dei vescovi di Liegi del XII secolo rimasero moneta circolante. Ma dal XV secolo esse divennero popolari oggetti da collezione per príncipi e studiosi. Come ricordo di persone o eventi della vita di una persona e, più tardi, anche di eventi importanti nella vita dello Stato, esse sono venute ad assumere la funzione di “monumenti portatili”.

La ragione della fioritura dell’arte della medaglia in questi secoli risiede nella approfondita coscienza del popolo che si sentiva sempre più individuo e, come tale, voleva assicurare la sua memoria oltre la morte.

Anche per questo motivo, i ritratti rappresentati sulle medaglie non dovevano essere solo realistiche rappresentazioni delle persone ma dovevano anche fissare, in modo gradevole e glorioso, il loro carattere. Questa visione si riflette anche nei requisiti che i teorici hanno stabilito per la ritrattistica, con la quale attività artistica il ritratto-medaglia è strettamente connesso.

Sembra tuttavia che, in questo senso, Vasari sia stato un’eccezione perché esigeva una connessione incondizionata con l’aspetto naturale. Dal momento che la somiglianza del ritratto con il modello era ció che per lui contava di più, egli rifiutava la falsificazione per amore della bellezza e considerava pertanto ammissibile la rappresentazione della bruttezza (1). Tuttavia, in questo, egli fu molto isolato e, alla fine, in una lettera a Ottaviano Medici, ammise perfino una visione idealizzante [della persona ritratta] (2).

Sebbene anche gli altri teorici esigessero una somiglianza naturale, essi erano della opinione che i difetti dovessero essere nascosti sotto il velo dell’arte: «Onde s’uno Imperatore è sproporzionato, non deve il pittore esprimere tutta quella sproporzione nel ritratto: et se sará troppo scolorito, ha d’ajutarlo con un poco di vivacitá di colore; ma di tal modo, et con tal temperamento, che’l ritratto non perda la similitudine, e che’l difetto della natura si cuopra accortamente con il velo dell’arte» (3).

La persona ritratta dovrebbe essere rappresentata come esemplare di una classe sociale con un tratto tipico del carattere. Secondo la pittura di ritratto, anche per la medaglia-ritratto la rappresentazione veritiera giocava solo un ruolo subordinato. Gli artisti erano infatti più interessati a ritrarre una personalità in modo rappresentativo.

Le monete commemorative, il cui vantaggio era che potevano essere prodotte in gran numero, servivano a diversi scopi. I cittadini le regalavano ai loro parenti e conoscenti, i principi li regalavano ai loro sudditi o li inviavano alle case regnanti straniere. Spesso esse venivano anche incorporate nelle fondamenta degli edifici di palazzo, come testimoniano le medaglie di papa Paolo II, trovate nel 1857 durante la ristrutturazione dei muri della cantina del Palazzo di Venezia, costruito durante il suo pontificato.

Peraltro, le medaglie commemorative furono più numerose a Firenze, dove non erano solo riservate al duca per glorificarlo ma venivano commissionate anche da singoli cittadini (fossero essi mercanti, studiosi, poeti, pittori, eroi di guerra o monaci) per assicurarsi una fama postuma.

La popolarità delle medaglie non si basava solo sull’idea di costituire un ricordo duraturo o sulla praticità della loro forma maneggevole. Esse suscitavano interesse anche per il loro fascino artistico. Grazie al processo di fusione (che avveniva parallelamente al laborioso intaglio delle matrici [punzoni] per la coniazione delle medaglie), esse potevano essere prodotte non solo dalle zecche ma da tutti gli artisti che lo volevano.

Alla fine del XV secolo, le monete coniate apparvero come un ulteriore famiglia di artefatti, così che gli artisti ebbero la possibilità di realizzare le composizioni individuali in molteplici modi diversi con tecniche diverse. Questo fatto ha conferito alle medaglie una grande espressività, e non solo per quanto riguarda i contemporanei raffigurati: esse registravano anche cambiamenti storici o varie tendenze politiche e religiose.

Simile alle monete dell’antichità (che alludevano più o meno chiaramente ad avvenimenti politici o bellici), verso la metà del XVI secolo e specialmente nelle città dell’Alta Germania, la medaglia-ritratto assunse il compito di documentare gli avvenimenti storici più diversi, ma soprattutto anche le accese dispute religiose che si verificavano in quel tempo (4). Così il potere immaginativo della medaglia non risiedette più solo in gradevoli disegni poetici ma assunse anche il compito di affermare semplici idee e connessioni astratte di idee. Così gli accenti della Riforma e le polemiche comuni a quell’epoca trovarono sbocco su numerose medaglie satiriche del XVI secolo, poiché cattolici e protestanti riconobbero che tanto lo stampo per la fusione quanto la matrice per la coniazione potevano essere usati con la stessa efficacia di “penna e matita” per illustrare i rispettivi punti di vista delle due parti religiose.

2.2.

Medaglie beffarde su papi e cardinali.

Le medaglie a due teste di papi e cardinali (5) riportate in questo testo testimoniano che l’atmosfera combattiva dell’epoca (cioè della prima metá del XVI secolo), in cui l’insulto all’avversario si rivelava un’arma efficace, si rifletteva anche nell’arte delle medaglie.

Il gran numero di queste medaglie beffarde indica che non erano solo diffuse in segreto, ma erano messe in circolazione pubblica proprio per la loro efficacia pubblicitaria. Già all’epoca del successo che i riformatori ottennero con la diffusione di quelle medaglie, il controverso teologo cattolico Jakob Gretser, per esempio, si lamentava: «Anche se si hanno molti modi e opportunità per portare qualcosa al popolo, il modo di farlo per mezzo delle monete è il più conveniente, soprattutto perché il denaro è piacevole per tutti e quindi penetra anche nell’angolo più intimo. Gli eretici del nostro tempo hanno probabilmente approfittato di questo, e non hanno solo operato una scandalosa presa in giro di papi, cardinali, vescovi, preti, monaci, suore e, in generale, dei nostri ordini ecclesiastici, per mezzo di libri, dipinti e statue ma anche, per mezzo di monete, hanno dato ovunque dimostrazione delle loro natura insolente» (6).

Le forme della medaglie con le doppie teste è di particolare importanza poiché, in un certo modo, esse sono prese in prestito dalla medaglia di ritratto. Chiamati Contrafeit-Munz (7), Pfennig o Schaugroschen, quei “ricordi simili a monete” (tra cui le medaglie di derisione) (8) erano spesso montati su catene o simili, come indicato dalla foratura o dagli appiccagnoli di cui varie medaglie sono dotate. In quanto oggetto di scherno, il loro scopo era principalmente concettuale piuttosto che pratico.

L’origine delle medaglie di derisione risiede nell’abitudine presa da Sisto IV, nell’ultimo quarto del XV secolo di far coniare il ritratto del papa sulle monete. Da quel momento in poi, per la produzione di tali pezzi commemorativi, la zecca papale fu molto interessata ad acquisire artisti rinomati come Benvenuto Cellini che, tra il 1529 e il 1533, conió due medaglie di Clemente VII per commemorare la pace siglata tra questi e l’imperatore. Le medaglie con ritratto furono molto popolari anche tra i successori di Clemente VII; per esempio, Paolo III fece realizzare per sé otto monete commemorative dall’incisore di gemme Alessandro Cesati mentre, alla fine del XVI secolo, l’incisore di monete papali Giorgio Rancetti coniò venticinque medaglie solo per Clemente VIII.

Così come fu naturale che la zecca papale conferisse a quei ritratti un carattere nobile e distinto, così, sotto l’influenza della Riforma, altri artisti trattarono invece  irrispettosamente il papa dato che egli, come successore di Pietro, è infatti il capo della Chiesa cattolica romana ed è responsabile solo verso Dio e non deve niente agli uomini né alle istituzioni umane o ecclesiastiche. Analogamente, i cardinali, che hanno il più alto grado nella Chiesa cattolica dopo il Papa (di cui sono consiglieri e assistenti), non sono stati risparmiati.

Ispirate alle comuni monete fuse dell’epoca, le medaglie beffarde mostrano anche a prima vista il ritratto di un papa o di un cardinale. A un esame più attento, tuttavia, esse si rivelano essere una sorta di puzzle: nascosta nelle linee di queste teste c’è infatti una seconda figura che può essere riconosciuta solo quando la testa è capovolta. Se infatti si gira la testa di 180º, il papa diventa un diavolo selvaggio e cornuto, e il cardinale, capovolto, si rivela un giullare. Attraverso queste immagini satiriche “inverse”, il significato delle medaglie di ritratto divenne anche ambiguo: esse non servivano più esclusivamente a glorificare una persona bensí a ridicolizzarla.

Comunque, le medaglie a due teste differiscono dalle medaglie-ritratto in quanto non hanno reale somiglianza con i papi o cardinali vivi o deceduti in quel periodo. E’ interessante rilevare che i papi, senza eccezione, siano rappresentati senza barba sulle medaglie, anche se, dopo il breve regno di Adriano VI, ci fu un certo numero di papi barbuti; seguì poi una serie di papi barbuti. Inoltre, le corone della tiara papale sono raffigurate in forme fantasiose: la loro varietà va da un tipo che riporta un semplice cerchio a modelli di corone variamente decorative; sulla parte superiore della tiara c’è una croce o un pomo o il globo con la croce, che simboleggiano il duplice potere del papa e cioè la sua pretesa di essere signore sia spirituale che temporale. Peraltro, l’uso di questi tre diversi simboli sulla tiara indica che tali medaglie non possono essere state create prima del XVI secolo; nei secoli precedenti, infatti, la parte superiore del diadema era costituita da una pietra preziosa: solo dal XVI secolo questa gemma fu sostituita da croce, pomo o globo sormontato dalla croce.

Le rappresentazioni dei papi possono essere ricondotte a diversi tipi come varianti di una stessa concezione di base. Analogamente avviene per le rappresentazioni dei cardinali: anche loro possono essere divisi in soli cinque tipi sulla base delle diverse forme dei loro copricapi. Il diavolo è rappresentato sulle medaglie sia con corna attorcigliate o ricurve, sia con un orecchio da satiro. Il giullare è rappresentato con un cappello o un berretto, al quale sono solitamente attaccate quattro campane; spesso una di queste quattro campane pende dall’estremità di un orecchio d’asino che sporge sotto il suo copricapo.

Anche se la data di realizzazione è annotata solo raramente sulle medaglie, si può sostenere (9) che esse sono state prodotte negli anni a partire dal 1539. La classificazione cronologica è stata difficile, soprattutto perché solo una parte delle medaglie prodotte nei due decenni successivi è firmata. Questo fatto potrebbe indicare che i medaglisti volessero nascondersi dietro l’anonimato protettivo; tuttavia, negli altri generi espressivi, la maggior parte degli artisti di quell’epoca confessarono apertamente anche le loro opere polemiche contro la chiesa o singole personalità. È quindi improbabile che solo il gruppo dei medaglisti si sia distinto da quella cerchia e abbia deliberatamente negato la propria paternità delle opere. Peraltro, non era affatto usuale che l’artista scrivesse il suo nome o le sue iniziali sulle altre medaglie ritratto, anche se prive di intenzione satirica (10). Perció, l’assenza di firme sulle medaglie satiriche non significa necessariamente che gli artisti abbiano nascosto i loro nomi per paura della rappresaglia delle parti rappresentate. Peraltro, in questo senso, è molto probabile che i medaglisti fossero completamente imparziali e che non abbiano firmato le loro opere solo perché l’arte medaglistica di solito si asteneva comunque dal farlo.

Anche se la maggior parte dei medaglisti rimase anonima, si sa che il luterano Nikolaus von Amsdorf (che fu il primo vescovo di Naumburg dal 1542), è responsabile di diverse medaglie a doppia testa. Altri pezzi si dice che provengano dalla mano dell’intagliatore e medaglista Friedrich Hagenauer di Augusta (11), anche lui vissuto nella prima metà del XVI secolo.

Queste indicazioni cronologiche ci permettono di trarre conclusioni sull’origine delle medaglie a due teste. È possibile che tale genere di opere risalga alla medaglia che fu coniata nel periodo dal 1530 al 1560 circa in onore del partito di fede imperial-papale per canzonare il papa-imperatore (12). Si tratta di una congettura molto verosimile: infatti, l’occasione per l’emissione di quella medaglia di papa/imperatore fu il fatto che, al culmine della sua influenza durante la Dieta Imperiale di Augusta nel 1530, Carlo V avesse deciso di sconfiggere i luterani per mezzo del suo potere imperiale. Per questo motivo i protestanti sostenitori della fede luterana ridicolizzarono la medaglia del papa/imperatore facendo realizzare a loro volta delle medaglie a doppia testa che, sul dritto, raffiguravano le due teste coronate del papa e dell’imperatore unite in modo reversibile mentre sul rovescio mostravano una doppia testa ciascuna di cardinale e di vescovo (13). Dopo che i príncipi protestanti si unirono nella Lega di Schmalkaldic, in risposta all’azione congiunta di papa e imperatore, dal 1531 le immagini inverse di papa e diavolo apparvero gradualmente accanto alle medaglie a due teste di “papa e imperatore” o “cardinale e pagliaccio”. Con queste, l’intenzione di ridicolizzare la Chiesa romana fu ancora più evidente.

In ogni caso, ovviamente, entrambi i tipi di medaglie beffarde rappresentano un esplicito mezzo di propaganda usata dalla Riforma dal momento che deridono la Chiesa cattolica. Esse si basano sempre sulla stessa idea artistica, anche se in diverse varianti, come dimostrano le opere dello stesso tipo qui illustrate.

Questo speciale genere di rappresentazione satirica fu ripreso anche da altre forme d’arte: una doppia testa di cardinale e sciocco (14) si trova cosí in una xilografia mentre una doppia testa di Lutero e sciocco (15) fu realizzata dalla parte cattolica per ridicolizzare i protestanti e, infine, una doppia testa di papa e diavolo si ritrova in un dipinto  piú tardo (16).

Che le medaglie siano servite da stimolo per gli altri generi artistici è già evidente dalla classificazione cronologica: mentre le monete furono infatti create poco prima della metà del XVI secolo, la pittura risale solo al 1600.

La forma circolare della medaglia ricorda il tondo che, in un senso più stretto, si sviluppò a Firenze dalla metà del XV secolo, soprattutto per le Madonne; esso  rimase essenzialmente limitato a Firenze e fu perso di nuovo nella prima metà del XVI secolo. Le sue radici principali sono il medaglione antico e la “gloria” cristiana. Naturalmente, i formati circolari sono sempre esistiti nelle belle arti ma la forma circolare delle medaglie sembra piuttosto determinata dalla sua origine nella monetazione;  infatti, le altre forme d’arte non hanno usato la geometria della medaglia ma hanno piuttosto applicato la dichiarazione contenutistica dell’ambiguità a qualsiasi formato.

Il modello per il dipinto, in cui la fisionomia del papa sembra quella di un dio arrabbiato, potrebbe essere la medaglia di scherno antipapale mostrata in Fig. 5; per quanto riguarda la raffigurazione della testa del diavolo, la medaglia attribuita a Friedrich Hagenauer (fig. 1) e la moneta a due teste (fig. 3) sembrano essere servite come ispirazione. Peraltro, rispetto alle medaglie, il dipinto registra un incremento della bruttezza e della distorsione dei tratti del viso.

2.2.1.

Il significato delle scritte sul bordo delle medaglie.

Mentre il disprezzo del papa, che è sostanzialmente lo scopo di quel dipinto, è espresso solo attraverso la fisionomia del personaggio, le iscrizioni sulle medaglie chiariscono ulteriormente l’intenzione creativa. Su una medaglia scarcastica (17), sulla quale è insolitamente riconoscibile l’incisore di medaglie Hans Reinhart il Vecchio di Lipsia (la cui influenza sui suoi contemporanei fu peraltro significativa (18), l’iscrizione sul dritto intorno a una doppia testa di papa con diavolo recita “ECCLESIA PERVERSA TENET FACIAM DIABOLI” (la chiesa perversa ha l’aspetto del diavolo). Anche sul rovescio, che mostra la figura bicefala di un cardinale e di un buffone con berretto tintinnante, il contenuto è sottolineato dall’iscrizione “SAPIENTES STULTI ALIQUANDO” (a volte i saggi sono sciocchi). Su un’altra medaglia di Hans Reinhart il vecchio (19) la scritta intorno a una doppia testa di cardinale-giullare recita “CARDINUM MUNDI EFFIGIES” (il cardinale è l’immagine del mondo).Un’altra medaglia antipapale beffarda (20) dice “EFFEMINATI DOMINABUNTUR EIS” (le prostitute dominano su di loro).

Queste iscrizioni, chiamate legendae (cioè tali da doversi leggere), erano per lo più scritte in lingua latina. Ma la stupidità e l’orgoglio erano derisi anche in francese: “ORGUILLE FOLIE” (21).

Per essere popolarmente comprensibile come mezzo di propaganda, a volte si diceva anche in tedesco: “DES BAPST GEBOT IST WIDER GOTT” (l’ordine del papa è contro Dio) e “FALSCH LEHR GILT NICHT MEHR” (il falso insegnamento non da niente) (22).

Le legende, che, per tutta la loro varietà, si ripetono più volte, come i motivi delle medaglie, forniscono così il commento vero e proprio e indicano lo scopo delle opere, che in questo periodo era preso molto sul serio. In questo senso, il ruolo delle legende è essenziale e significativo.

2.3.

Scopo delle medaglie a due teste.

Senza il significato fornito dalla legenda, l’idea delle medaglie in questione è difficile da cogliere. Le viste di profilo sulle medaglie beffarde, che seguono l’esempio delle monete imperiali romane, non differiscono da quelle medaglie-ritratto fatte allo scopo di immortalare una persona, perché il volto delle persone raffigurate rimane apparentemente naturale. L’espressione facciale di quelle rappresentazioni, se non completamente eliminata dalla semplice configurazione, è limitata principalmente alla bocca mobile. Solo la rotazione della medaglia porta alla luce una seconda faccia, il cui mento è sempre formato dal naso della testa superiore, mentre la bocca è la stessa per entrambe le teste. Sembra particolarmente sarcastico che l’unica caratteristica comune delle doppie teste altrimenti così diverse sia la bocca, che negli umani è usata per parlare e gioca comunque un ruolo essenziale nel modellare l’espressione della faccia. La doppiezza del personaggio è particolarmente enfatizzata dalla connessione che viene rappresentata e, nel senso più autentico della parola, enfatizzato.

2.3.1.

La connessione con l’idea del “mondo alla rovescia”.

Occorre aggiungere che il medaglione a due teste testimonia una stretta relazione con l’idea del “mondo a rovescio”, che era un tema comune nel tardo Medioevo e si manifestava in molte forme, ma soprattutto come un’inversione dall’alto verso il basso (23).

È l’espressione perfetta per tutto ciò che è irragionevole e irrazionale.

Nell’inversione dello stato normale delle cose, per cui la serietà del mondo terrestre si trasforma in leggerezza, Scribner vede una connessione con il carnevale, che trasforma l’ordine in caos (24). Nel carnevale, la dignità è derisa, il sublime è sminuito e le norme e l’ordine sociale sono capovolte, nonostante un mondo completamente rovesciato (25).

L’inversione, tuttavia, appartiene anche alla dottrina cristiana; idee come “gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi” o “chi si umilia sarà esaltato”, o “chi si esalta sarà umiliato” si trovano ovunque nei Vangeli. Per Scribner, tali idee si basano sul principio religioso dell’inversione, nella misura in cui il mondo materiale terreno è un rovesciamento della vera realtà, che, a differenza delle cose materiali e deperibili cui l’attenzione della gente è diretta, è spirituale ed eterna (26).

Anche l’idea dell’Anticristo appartiene a questo contesto, perché egli è l’inversione di tutto ciò che è cristiano e divino: secondo le Epistole di Giovanni nel Nuovo Testamento (27), egli va cercato tra gli uomini che non sono più convinti sugli apostoli. I riformatori hanno anche capito che l’Anticristo non è un diavolo ma un uomo che afferma di essere Cristo. Quindi non va cercato negli inferi ma nei falsi cristiani (28) che non vivono in modo credibile la loro convinzione. L’Anticristo è stato ipotizzato fin dall’inizio della cristianità, come si può riscontrare dalle lettere di Paolo (29), un tipico segno della fine dei tempi. Poco dopo la morte di Gesù ci si aspettava che essa fosse imminente e che un nuovo mondo l’avrebbe seguita. Anche nell’Apocalisse (la rivelazione segreta) che con un linguaggio figurato mette a confronto le esperienze ecclesiali intorno al 100 d.C. del cristianesimo di allora con le aspettative della fine e raffigura il dominio di Dio sulla storia umana, si dice che Gesù tornerà presto; anzi, si annuncia l’Anticristo, ma il Signore sarà più forte di lui.

La dottrina della consumazione del mondo, l’escatologia, è la convinzione cristiana che qualcosa di meglio verrà attraverso la distruzione. Individualmente, questa ipotesi si applica alla morte dell’individuo, ma significa anche la fine e la consumazione del mondo.

La speranza del cristianesimo di un mondo nuovo attraverso la morte di Gesù fu ripetutamente delusa, così che la profezia della fine dei tempi rimase viva nel ciclo delle generazioni. Anche se le successive profezie sulla fine del mondo non si sono avverate, ogni occasione ulteriore è stata tanto più probabile da allontanare la fine. In questo modo, l’opposizione dell’attesa cristiana e dell’esperienza terrena rimanevano in relazione tra loro senza essere contraddette (30). Così, fino al XVI secolo, l’attesa costante dell’ultima volta era contrapposta al costante ritardo della fine lontana (31). In questo periodo, tutti i segni concernenti la fine del mondo erano ripresi dal movimento di rinnovamento religioso.

Oltre a ció, durante la Riforma, i segnali che avrebbero annunciato la fine del mondo secondo l’Apocalisse di Giovanni sembravano manifestarsi, anche perché le persone più attente di questo periodo erano convinte che l’Anticristo fosse il Papa.

Una connessione tra il Papa e l’Anticristo è fatta dalla medaglia beffarda di Peter Flötner, datata attorno al 1545 (32). L’iscrizione, che sul dritto circonda il busto di Cristo a sinistra e a destra, secondo Giovanni 1:29 e Giovanni 14:6, recita rispettivamente «ICH BIN DAS LEMLEIN DAS DER WELT SUND TREGT» (io sono il limite che guida il mondo) e « NIMANT KUMPT ZU DEM VATER DAN DURCH MICH» (nessuno andrá al Padre se non tramite me). Sul rovescio, in cui un piccolo diavolo gli sta afferrando la corona Papa, il Papa è identificato come l’Anticristo dalla scritta: «SO BIN ICH DAS KINDT DER VERDERBNUS UND DER SUNDEN» (cosí io sono il figlio della corruzione e del peccato).

Le rappresentazioni di mostri, demoni ed esseri fantastici che erano popolari nel Medioevo, sono anch’esse legate al senso del “mondo alla rovescia”. In un’epoca che minacciava di tralignare, essi segnalavano il disordine nel mondo morale come un’inversione della natura, il segno di una natura disordinata (33): in tal senso, il deterioramento morale era stato riconosciuto nell’inversione della forma (34). La riverenza si rovescia in cruda familiarità, la dignità in umiliazione, il rispetto religioso in bestemmia.

Se si considera che il compito effettivo della medaglia non era l’espressione fisiognomica ovvero un’enfasi del momento emotivo ma la riproduzione oggettiva di un aspetto evidente, allora le doppie teste Cardinale-Pagliaccio e Papa-Diavolo appartengono senza dubbio a questa gamma di temi.

2.3.2.

L’esperienza di Dio dal volto di Giano.

Colpisce il dualismo espresso nel fatto che, sulle medaglie, il papa fosse sempre associato al diavolo mentre la contro-immagine dei cardinali fosse sempre lo sciocco [il matto, il pagliaccio, il buffone].

Poiché le doppie teste dei rappresentanti terreni di Dio esprimono due diversi comportamenti, ci si chiede se questo non corrisponda anche a un’allusione a due forze fondamentali che muovono la parte più interna di Dio. Soprattutto nell’Antico Testamento troviamo due modi opposti con i quali Dio rivolge la sua attenzione di Dio verso l’umanità, cioè guarire e distruggere (35): in questo senso, lo stesso male è identificato con l’immagine di Dio al punto che l’Antico Testamento non conosce quasi demoni indipendenti e li menziona al massimo di sfuggita (36).

Al tempo dell’antico Israele, Yahweh era percepito principalmente come il Dio della vendetta e del castigo. L’uomo si sentiva impotente in balia della potenza spietata di Dio (37). Nella fase iniziale dell’umanità, le forze spesso distruttive della natura erano attribuite a un Dio vendicatore, che doveva essere placato da sacrifici. Ma non appena le persone furono gradualmente capaci di controllare quelle forze elementari, l’immagine di Yahweh si trasformó. Egli divenne un Dio che non distruggeva più indiscriminatamente, ma lasciava esistere chi non aveva peccato (38). Così, la distruzione non colpiva più indiscriminatamente. Così, la sua crudeltà, prima incalcolabile, si era trasformata in un “demone didattico”.

Un esempio di questo concetto si riscontra nella storia veterotestamentaria di Giobbe, che riflette la sofferenza dei giusti e la giustizia di Dio. Giobbe, il pio sofferente che cade nella miseria senza sua colpa e la cui fede vacilla perché si sente spinto nel nulla, insegna che Dio vuole che l’uomo sperimenti sia la felicità che la disgrazia, poiché solo attraverso l’esperienza contrastante della sofferenza egli può comprendere pienamente la sua felicità.

Tuttavia, il potere distruttivo di Dio non prende mai il sopravvento, poiché è sempre soggetto alla sua sovrana volontà di salvezza, che alla fine trasforma tutto in bene, affinché tutti possano confidare in lui. Ma l’idea di un “Padre Celeste” innocuo e indulgente (39) viene scambiata con quella di un Dio educativo e talvolta terrificante. Questo aspetto daimonico di Dio, tuttavia, non è da intendersi come il sublime e l’incomprensibile per eccellenza, ma solo nel senso limitato del perturbante (40). Esso è strettamente legato all’esperienza dell’ignoto che, essendo strano, sembra inquietante e pericoloso. Dio è essenzialmente inconoscibile per l’uomo; la sua essenza sfugge a qualsiasi definizione, è sconosciuta e quindi appartiene al regno del senza nome, minaccioso. Ma essere spaventati è precisamente una delle caratteristiche essenziali del sacro. La santitá non è un concetto umano-morale, ma denota l’unicità di Dio e l’appartenenza a lui: Dio è santo e gli uomini lo lodano, lo glorificano e lo temono. La rappresentazione di Dio mediante il volto di Giano non poteva quindi essere mantenuta a lungo. Il regno demoniaco fu sempre più separato da Dio e attribuito al diavolo, così che anche il diabolico delle doppie teste nega una connessione con il divino, ma solo con il diavolo.

2.3.3.

L’esistenza del diavolo.

L’identificazione del papa con il diavolo è senza dubbio ispirata dagli insegnamenti e dagli scritti di Lutero che, lungi dal superare la credenza medievale nel diavolo, in realtá l’aveva piuttosto approfondita. Nella lotta tra Cristo e Satana per il possesso della Chiesa e del mondo, che egli ritrasse come violentemente opposto a Dio, all’uomo e al mondo, nessun teologo prima o dopo di lui ha ragionato nello stesso modo (41). Convinto della presenza permanente dell’Avversario, Lutero diede un resoconto della propria esperienza con il diavolo come una manifestazione inspiegabile: «Ma non è una cosa strana e inaudita che il diavolo rimbombi e vada in giro per le case. Nel nostro monastero di Wittenberg l’ho sentito personalmente. Infatti, quando cominciai a leggere il Salterio e dopo che avevamo terminato le preghiere notturne e io sedevo nel coro, studiando e scrivendo la mia lezione, allora il diavolo venne e rumoreggió nell’inferno, come se ne trascinasse fuori un moggio. Alla fine, visto che non cessava, raccolsi i miei libriccini e andai a letto; ma oggi mi dispiace di non essermi seduto fuori con lui, dato che avrei visto cos’altro avrebbe fatto il diavolo. E ancora l’ho sentito una volta sopra la mia camera nel monastero» (42).

Nell’autobiografia di Lutero, che costituisce la premessa alla prima edizione della raccolta delle sue opere, si sottolinea chiaramente l’atmosfera minacciosa di quel tempo, in cui l’uomo era visto come un campo di battaglia tra Dio e il diavolo: «Perché quest’ultimo è potente e maligno, proprio ora più pericoloso che mai, perché sa che può infierire solo per poco tempo» (43).

In relazione alla critica al papato, che Lutero riteneva responsabile degli abusi nella chiesa, l’equazione del papa con il diavolo si trova nella stessa opera, così come nei “Colloqui a tavola” e nel noto pamphletContra Papatum a Diabolo Fundatum”, che fu anche ripreso dai medaglisti.

Sotto il profilo della storia religiosa il concetto di diavolo è difficile da afferrare ma in tutte le religioni si cerca di spiegarlo in funzione del contrasto fra il bene e il male, anche se solo raramente tale entità corrisponde come antagonista adeguato all’Essere Supremo e, infatti, nel cristianesimo il principio del buono è superiore a quello del male.

L’esistenza del diavolo è riportata anche nel Nuovo Testamento così come in molte testimonianze della tradizione della fede cristiana. Il diavolo è anche connesso alla salvezza operata da Cristo, in quanto la salvezza è lo stato di felicità che deve essere ricercato dall’uomo religioso: a questo stato di grazia egli è condotto dal Salvatore dallo stato imperfetto del peccato. Cristo, quindi, ha fondamentalmente spezzato il potere del demonio.

Ci sono due diverse concezioni del diavolo, la potenza incalcolabile che rappresenta l’orrore del mondo per eccellenza (44).

Da un lato, il Diavolo è la personificazione del peccato del singolo uomo che, se non costringe, almeno tenta di indurre a commettere follie avventate. Dall’altro, egli è il misterioso avversario di Dio, la cui immagine rimane intangibile, anche se ci appare familiare come una figura anomala di animale e di uomo con piede e corna di capra: la nostra immaginazione è infatti  irrimediabilmente legata alla fisicità, cioè alla realtà oggettiva (45).

Nella Bibbia, il diavolo non è una figura mitica atta a rappresentare la lotta del bene e del male ma un essere che, secondo la sua natura inferiore, è avversario di Dio, la testimonianza dello sviluppo storico del conflitto perduto. Inoltre, egli è il rappresentante degli esseri che si ribellano a Dio (46).

Alla luce di quanto detto, è chiaro che la doppia testa di papa e di diavolo non solo collega i due concetti opposti di bene e di male ma, allo stesso tempo, si prende gioco della gerarchia religiosa della Chiesa cattolica.

Nella ben nota Disputa di Lipsia, Lutero aveva negato la supremazia divinamente ordinata del Papa. Egli voleva rispettare il papa solo nella sua funzione di vescovo di Roma e rispettare il papato come istituzione costituita secondo il diritto umano. Per lui lo standard di obbedienza era solo il Vangelo e non un’istituzione umana. Poiché i riformatori non condividevano la visione cattolica che il papa fosse rappresentante di Dio, essi ridicolizzavano questa uguaglianza giustapponendo il papa al diavolo, il più alto contropotere celeste. Così le medaglie a due teste servirono ai riformatori come un insulto rivolto ai cattolici.

2.3.4.

Il motivo del Buffone.

Nello stesso senso delle doppie teste del papa-diavolo, vanno intese le doppie teste del cardinale-buffone. Per il cardinale, che è soggetto solo al papa, cioè a un essere umano e non a un essere divino, il giullare mondano è, allo stesso livello, la contro-immagine di quel mondo (47).

La letteratura sui matti fiorì soprattutto all’inizio del XVI secolo, dopo che il motivo li riguarda era stato diffuso dalla “Nave dei folli” di Sebastian Brant, che forniva uno specchio contemporaneo e mondiale dei difetti e dei vizi di tutti gli ambienti e le professioni, a partire dal 1494. Così Thomas Murner sviluppò la poesia dottrinale di Brant, in cui la possibilità di un’identificazione tra stoltezza e peccato era solo agli inizi, in un pamphlet in cui stabilì un’analogia della sfera dello stolto e della sfera del diavolo e caratterizzò lo “stolto” come il “distruttore che si ribella a Dio”.

Ma mentre la concezione di Murner dello sciocco non aveva nulla di promettente per il futuro, Erasmo da Rotterdam aprì nuove prospettive nel suo “Laus Stultitiae” (elogio della follia). Ispirato da Sebastian Brant, l’iniziatore del concetto, Erasmo riprese il tema esattamente nel punto in cui Murner aveva riconosciuto solo l’inganno e la impotenza, cioè al timidamente accennato ottimismo della ragione di Brant (48).

In tal senso, Murner ed Erasmo hanno contribuito allo sviluppo delle premesse di Brant, l’uno per negarle completamente, l’altro per portarle oltre. Mentre Murner accrebbe i tratti negativi presenti nella “Nave dei folli” fino all’insormontabilità, Erasmo diede al tema dei folli una concezione positiva. Secondo lui, infatti, la tradizione cristiana e lo sforzo umanistico per l’innovazione potrebbero essere combinati, anche se non proprio in modo non problematico, almeno in un modo sostenibile. Con una tale soluzione del problema del suo tempo, Erasmo fu superiore sia a Brant che a Murner: egli è stato, infatti, l’unico che ha saputo interpretare l’essenza stessa della follia senza un’intenzione prevalentemente pedagogica o polemica.

Poiché le doppie teste denunciano l’ipocrisia della Chiesa, il buffone qui è da intendersi nel senso dell’uomo stupido e stolto. È una figura che si fa notare per la sua irragionevolezza, un clown, una figura grottesca nel vero senso della parola, attraverso la cui forma la realtà traspare fin troppo chiaramente. Dopo tutto, in questo senso la fisionomia del giullare sarebbe “molto vicina” alla faccia del cardinale.

La forma rotonda della medaglia e l’iscrizione che la circonda, il cui inizio e la cui fine si fondono l’uno nell’altra, collegano inoltre le due facce in un ciclo costante.

Allo stesso tempo, la rotondità della medaglia è utile nella misura in cui essa sfida lo spettatore a guardare la medaglia da un angolo sempre nuovo, riducendo così all’assurdo concetti come costanza e solidità: l’incostanza e l’ambiguità sono cosí piuttosto le caratteristiche di ciò che viene rappresentato.

Ma questo significa anche che l’artista sottopone una persona di una certa autorità plasmandola alle proprie idee, esprimendo cosí la sua rappresentazione e non la sua personalitá. Non è il papa ma l’istituzione che viene demonizzata, non il cardinale ma il suo ruolo in quanto tale che viene esposto al ridicolo. Ecco perché nessuno dei volti dei cardinali e dei papi costituisce una rappresentazione fedele della realtà oggettiva e tutti hanno tratti caricaturali. Al fine di garantire la credibilità dell’opera, tuttavia, a prima vista, le teste del papa e dei cardinali si avvicinano comunque a un certo tipo di ritratto, anche se spietato. Così la rappresentazione pittorica può essere un simbolo che non è rappresentabile.

2.4.

La misura estetica del brutto.

Le teste degli sciocchi e dei diavoli, tuttavia, ricadono nel senso della loro contro-immagine, nel regno degli informi e dei rozzi, anzi dei brutti. Come controparti di un mondo armonioso di forme costanti, essi danno espressione al caos e al brutto. Il brutto ha qui un significato morale come segno della decadenza della spiritualità. Per quanto riguarda il deforme, esso è l’espressione adeguata del male e si suppone che essa abbia un effetto deterrente.

In sostanza, l’estetica del brutto è insita in queste doppie teste. Perché è ritenuto mezzo legittimo di agitazione contro i componenti ecclesiastici, il brutto acquista un valore artistico (49). Dove occorreva riconoscere l’allegorico, più che l’aspetto di una bellezza a riposo in se stessa, era importante rappresentare il brutto. Il primo piano doveva ora dare accesso allo sfondo. Questo sviluppo di profondità è stato spesso possibile solo rompendo radicalmente la rappresentazione neutrale e oggettiva.

Il prerequisito per far emergere la bruttezza, tuttavia, era uno standard con cui la bruttezza poteva essere misurata. Questo standard fu offerto solo dal Rinascimento, il cui obiettivo fu quello di rappresentare la realtà materiale in forma astratta, seguendo l’esempio dell’arte classica, in un ritorno all’antichità (50). La semplice esistenza della bellezza non era sufficiente; piuttosto, essa doveva essere considerata come una misura estetica vincolante, in modo che ogni altra forma potesse essere misurata con essa. Il brutto è dunque un concetto relativo che puó essere percepito solo in relazione a un altro concetto; esso esiste solo nella misura in cui il bello costituisce la sua precondizione positiva, come la negazione della quale trova il suo diritto di esistere (51).

2.4.1.

Il bello e il brutto.

Un problema, tuttavia, risiede nel fatto che la bellezza non può essere definita. Il concetto di bellezza trascende tutte le categorie e i termini generici. È una delle caratteristiche delle determinazioni fondamentali dell’essere, che seguono direttamente e necessariamente dalla sua essenza e la accompagnano inseparabilmente. Al contrario del brutto, il bello è la gradevole qualità della nostra sensazione che ci piace.

In estetica, il bello è concepito come l’armonia “delle parti di un tutto” e come una convenienza apparente. La concezione metafisica del bello riconduce questo concetto a una corrispondenza tra l’apparenza e l’essenza dell’oggetto, tra la cosa guardata e l’archetipo.

Due esperienze originariamente umane sono alla base del bello; una è il cosmo, il cui ruolo nell’esperienza del bello è fuori discussione; la seconda è l’incontro con la bellezza umana che è sempre legato al suo aspetto sensuale.

L’idea di ciò che costituisce un bell’essere umano varia in ogni momento. Ma l’immagine desiderabile dell’uomo di un’epoca è comunque sempre identica a un ideale di bellezza (52). Nell’arte significa sempre allontanarsi dal brutto e anche dalle cattive caratteristiche.

Oltre all’idea della mera imitazione della natura attraverso un’opera d’arte, il pensiero dell’antichità riteneva già che l’artista fosse capace di contrapporre alla natura un’immagine di bellezza creata ex novo.

Per Socrate, che riteneva che non ci fosse nessun essere umano completamente irreprensibile nel suo aspetto, era evidente che l’artista migliorava le imperfezioni per libera capacità creativa, attingendo le parti più belle da molti corpi (53).

In contrasto con questo aspetto della perfezione della bellezza “per selezione”, Cicerone sosteneva che la bellezza non poteva essere prodotta dall’esperienza ma poteva essere solo immaginata nella mente. Secondo lui, gli artisti, nella loro immaginazione interiore, possedevano un archetipo di bellezza che li aiutava a rivelare qualcosa di bello, anche se non poteva rientrare perfettamente nella loro rappresentazione (54). Allo stesso tempo, però, Cicerone negava allo spettatore la capacità di riconoscere l’intera bellezza dell’oggetto della rappresentazione artistica, poiché essa non poteva essere colta con i sensi, ma esisteva solo come immagine mentale interiore: «.. sed ego sic statuo, nihil esse in ullo genere tam pulchrum, quo non pulchrius id sit, unde illud, ut ex ore aliquo quasi imago, exprimatur. quod neque oculis neque auribus neque ullo sensu percipi potest, cognitatione tantum et mente complectimur...» (55).

Accanto a queste visioni, anche nell’antichità si incontra un mondo disinteressato al bello. Nei cataloghi dei vizi e delle follie della filosofia stoica domestica e popolare, il bello era stato svalutato e metodicamente vituperato.

La svalutazione stoica del bello si ritrova nelle “Epistole morali” di Seneca. Per lui, niente è più irragionevole che apprezzare la bellezza, poiché, in quanto cosa passeggera, non merita alcuna ammirazione. Inoltre, ciò che è bello non è “buono”, perché “buono” è solo diventare buono nel “pozzo della propria interiorità”. Perciò egli sostiene: «Ritiratevi!». «Fai a te stesso ciò che gli uomini amano fare nei confronti degli altri…». «Pensa male di te stesso» e «assumi il ruolo di accusatore, poi quello di giudice, infine quello di avvocato» (56). Per lui vale solo il dio dell’idealismo morale (57). Secondo questo pensiero, l’uomo raggiunge la sua dignità solo in atti psico-ascetici, ai quali lo aiuta la tecnica del disprezzo di tutto ciò che è bello.

Un mezzo comodo ed efficace per lo smascheramento delle belle apparenze è quello di immaginarle divise, poiché sono allora disgustose, cieco allarme e vertigine (58). Così, dal punto di vista dello stoico pagano, il bello è necessario solo per mettere alla prova la virtù della forza di volontà e per trascendere il non egoistico.

Gli apologeti cristiani, che scrivevano in latino e in greco, fecero a gara con gli stoici pagani nello svalutare il bello. Per loro, tuttavia, la bellezza avrebbe potuto esistere in abbondanza – solo che l’uomo non ha diritto a quella bellezza, poiché essa appartiene solo al Creatore del mondo. Ora non è più l’uomo che vuole ritrovarsi nell’indispensabilità della sua volontà e quindi si vieta la gioia della bellezza. Ora all’uomo come creatura è negato il diritto alla bellezza.

Così, secondo Tertulliano, ciò che non è la bellezza di Dio è del diavolo, per quanto bello possa essere (59). Origines sviluppa ancora di più questo concetto: «Se solo la bellezza di Dio deve essere valida, solo il Figlio di Dio deve essere bello». Secondo questi punti di vista, Dio era considerato la bellezza assoluta. L’amore, la vivacità e la perfezione erano legati a lui. Il mondo, perciò, era tenebra e menzogna, per cui Dio e il mondo dovevano essere tenuti separati.

Ma, lo sviluppo della fede cristiana, la via degli antichi non era più praticabile, perché, se tutto ciò che è “bello” è del diavolo, che cosa è allora la bellezza soprannaturale del Creatore del mondo? Inoltre, il mondo è opera di Dio, per cui tutto ciò che è straordinariamente bello potrebbe essere un riflesso della bellezza di Dio.

Un questione che il cristianesimo dovette affrontare fu certamente il problema dell’estetica medievale. Perciò Agostino e Dionigi Pseudo-Areopagita cercarono di riformulare le vecchie dottrine.

In tal senso, la filosofia paleocristiana ha potuto adottare quasi immutata la visione del neoplatonismo, secondo la quale la bellezza visibile era solo il simbolo di una prossima forma superiore di apparenza. Anche se, per Agostino, il naturale (cioè le cose belle della natura come il cielo, le stelle e l’acqua) offriva una bellezza di prima mano, egli riconosceva anche che l’arte poteva portare alla luce la bellezza: l’artista non avrebbe dovuto rappresentare gli oggetti naturali ma esprimere la sua immaginazione interiore.

Agostino elogiava la potenza impressionante del bello e confessava il suo compiacimento in esso. Per lui, la bellezza era bella in sé e quindi piacevole. Ma Agostino non voleva solo godere del bello, voleva anche capirlo, cioè giudicarlo; quindi, proprio come Platone, sviluppó un ragionamento a partire dal bello. Come mediatore tra Dio e il mondo della materia, il bello visibile (che egli vedeva solo come un racconto dell’invisibile), gli serviva per la venerazione di quella bellezza che stava oltre le opere d’arte.

Poiché l’opera d’arte aveva il compito di essere utile per un certo scopo e, allo stesso tempo, per trasmettere certi significati, la bellezza dell’arte era condizionata dalla ca-tegoria dell’utile. Agostino, tuttavia, espresse la sua preoccupazione per la crescente diversità della produzione di opere d’arte e oggetti di uso quotidiano. Poiché, a suo parere, questa attività creativa andava oltre il puro significato e l’utilità delle cose, egli temeva che la gente potesse soccombere al fascino meramente esteriore del bello nell’arte senza riflettere sul suo Creatore. In realtà, per Agostino la bellezza che gli artisti esprimevano con le loro mani sulla base della loro immaginazione interiore doveva servire solo alla gloria di Dio, dalla cui bellezza soprannaturale procedeva: «Quam innumerabilia variis artibus et opificiis in vestibus, calciamentis, vasis et ciuscemodi fabricationibus, picturis etiam diversisque figmentis atque his usum necessarium atque mederatum et piam significationem longe transgredientibus addiderunt homines ad inlecebras oculorum, foras sequentes quod faciunt, intus relinquentes a quo facti sunt et exterminantes quod facti sunt, at ego, deus meus, etiam hinc tibi dico hymnum et sacrificio laudem sacrificatori meo, quoniam pulchra traiecta per animas in manus artificiosas ab illa pulchritudine veniunt, quae supra animas est, cui suspirat anima mea die ac nocte» (60).

Agostino, che ha sostituito l’impersonale mondo-spirito del neoplatonismo con il Dio del cristianesimo, ha così ammesso il bello artistico, pur se limitato, nella misura in cui esso era espressione della natura divina.

La sua concezione del bello artistico ha comunque fornito un terreno fertile per le teorie dei secoli seguenti.

Nel Medioevo, quando la teoria filosofica del bello, la teoria dell’arte e la teologia della percezione sensoriale erano nettamente separate l’una dall’altra, la bellezza era concepita come una “qualità oggettiva dell’essere in sé” (61). Quella qualità poteva essere rivelata dall’uomo, ma non prodotta, così che l’arte nel Medioevo era considerata bella quando assomigliava alla natura. La bellezza che poteva essere presente nell’opera dell’artista nella stessa misura che nell’opera della natura dipendeva comunque dal piacere che suscitava in chi la guardava. C’era però una grande differenza tra l’opera dell’artista e la bella natura creata da Dio: infatti l’artista puó solo imitare solo la bellezza creata da Dio dal nulla.

La bellezza, che era la qualità più alta nella natura e nell’arte, collegava il mondo materiale con il mondo superiore, l’uomo con Dio; essa era considerata sinonimo di perfezione ed era equiparata alle categorie del vero e del buono.

Questa concezione era di origine platonica. Dopo che lo pseudo-Dionigi Areopagita la introdusse nella filosofia cristiana, essa mantenne la sua validità fino a Tommaso d’Aquino, che la riformulò in termini aristotelici. Per questo pensatore, la bellezza era la vivacità del vero e del buono. Al contrario, di conseguenza, , il falso e il cattivo non esprimevano bellezza, perché mancavano di tangibilità; ma non c’era nessuna bruttura assoluta e, quindi, nessuna invisibilità, perché tutto l’essere riceve da Dio, grazie alla sua perfezione, tanta bellezza visibile quanto l’essere.

Di conseguenza, Giovanni Scoto, nel suo commento “Super ierarchiam coelestem Sancti Dionysii”, per il giudizio del bello presuppone che ogni cosa sia luce per l’uomo. Attraverso la contemplazione dell’oggetto e la sua classificazione in certi generi di cose all’interno dell’ordine universale, l’uomo ha accesso alla luce altrimenti inaccessibile. Dato che le cose partecipano a questa luce attraverso il loro essere, esse sono guardabili e quindi belle (62). In questo senso, la contemplazione soddisfa il desiderio del bene, e il godimento della bellezza diventa una lode al Creatore divino. Come analogia del soprasensibile, per Giovanni Scoto, la bellezza era comprensibile solo spiritualmente: «Hine est, quod universalis huius mundi fabrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex multis lucernis compactum, ad intelligibilum rerum puras species revelandas et contuendas mentis acie, divina gratia et rationis ope in corde fidelium sapientum cooperanti bus» (63).

Nella filosofia dell’arte medievale, anche le immagini dell’uomo erano comprese in funzione della visualizzazione dell’intelligente universale. Nel loro significato universale, esse illustravano una virtù, un peccato o un ufficio, un mestiere, così come gli eventi della storia salvifica e profana.

Sebbene la concezione medievale della comprensione di una bellezza che può essere colta solo spiritualmente (come presupposto della bellezza che può essere percepita dai sensi) si basasse sul pensiero di Agostino, anche le opere dello Pseudo-Dionigi Areopagita, l’estetologo tra i Padri della Chiesa, raggiunsero una grande importanza. La educazione platonica e plotiniana di quel pensatore non ha sminuito il suo atteggiamento cristiano.

L’adozione del “Corpus Areopagiticum” attraverso la traduzione di Giovanni Scoto ebbe un’influenza decisiva sull’estetica medievale. Oltre ad Agostino, che si occupava della giustificazione del male, fu lo Pseudo-Dionigi a legittimare la preferenza medievale per la bellezza del brutto e del repulsivo. L’apprezzamento di tale bellezza presupponeva sia la concezione allegorica del bello che la convinzione di un ordine universale in cui il male e il brutto potevano essere compresenti.

Nel trattato di Giovanni Scoto “De divinis nominibus” (un’esposizione esaustiva dell’identità della perfezione e della bellezza dell’essere) (64), anche i demoni erano considerati “a modo loro” perfetti e quindi belli proprio per la loro deformità. Lo stesso valeva anche per gli animali immaginari, così come tutta la natura, compresi i corpi malati e deformi. Poiché tutte le cose sono create da Dio, esse non possiedono alcun difetto completo, perché questa condizione coinciderebbe con il non essere. Ma poiché il malformato partecipa all’essere, che è buono, in esso si rivela una perfezione relativa. Esso possiede una visibilità e quindi una bellezza propria.

In accordo con la visione della bellezza della deformità, nella dottrina di Dio i Dionisiaci consideravano teoricamente ammissibili solo le immagini brutte e poco attraenti; tali immagini di deformità potevano infatti dirigere l’anima verso la perfezione di Dio. La bellezza inadeguata degli esseri difettosi e malvagi doveva portare l’osservatore a cercare la bellezza e la perfezione assoluta e permettergli cosí di riconoscere Dio per analogia.

Secondo lo Pseudo-Dionigi, la diversità delle immagini percepibili aveva il compito di collocare il divino sul piano umano (65). Le espressioni deformanti di molte sculture all’interno e all’esterno delle chiese romaniche corrispondevano a questa visione. Esse si basavano sull’idea che, attraverso la contemplazione di questo mondo esterno, che enfatizzava il contenuto simbolico dei fenomeni mondani, l’anima arrivasse alla contemplazione del bello assoluto.

La dottrina medievale, quindi, non solo presupponeva un’identità di “bello” e “buono”, ma concepiva anche il brutto come la distorsione di una forma reale, alla cui presenza è legata la possibilità di realizzazione in una contro-immagine.

I concetti dell’estetica medievale, ai quali Giovanni Scoto (traduttore e interprete dello Pseudo-Dionigi) aveva fornito il fondamento teorico, rimasero significativi in Italia fino al XIV secolo e nel resto d’Europa fino al XV secolo. Così, anche per Ulrico di Strasburgo, Dio non era solo la misura assoluta della bellezza stessa, ma era anche la causa attiva, la causa esemplare e la causa finale di tutta la bellezza creata. Egli vedeva il mondo come completamente bello. Il brutto, secondo lui, o aveva qualcosa di bello, come nel caso delle deformità, o serviva a sottolineare la bellezza di ció che gli si opponeva. Divenne quindi abbastanza evidente per lui che anche le cose più brutte appartenessero alla bellezza dell’universo, in quanto, cioè, potevano anche possedere qualcosa di bello in natura, o comunque contribuire alla bellezza di altre cose per contrasto: «Cum etiam ea quae deformia sint, vel habeant aliquid pulchritudinis in se ut monstrua et mala poena vel saltem amplius extollant, pulchritudinem oppositorum ut defectus naturales vel peccatum in moribus, patet qualiter haec sunt de pulchritudine universi, scilicet inquantum pulchra sunt essentialiter vel occasionaliter, et qualiter non sint de pulchritudine eius, scilicet inquantum sunt privata pulchritudine» (66).

Nel XV secolo, l’erede spirituale dell’estetica cristiana medievale fu Dionigi Rickel, un teologo certosino fiammingo che scrisse ciò che era già stato pensato da tempo nella sua ampia opera “De venustate mundi et pulchritudine Dei”. Egli ha riaffermato l’idea medievale della bellezza percepibile come immagine di una bellezza soprasensibile. Secondo la sua filosofia, anche le opere d’arte in cui si riproduceva la bellezza delle cose naturali, rinunciando al brutto caratteristico, potevano partecipare come prodotti umani alla bellezza oggettiva dell’universo.

In contrasto con l’estetica italiana del Quattrocento, nel suo trattato “De remedio tentationem”, Dionigi rappresentò la concezione agostiniana e pseudo-areopagita della visibilità del male. Così, la bruttezza del male avrebbe dovuto illustrare il contrasto con il bene. Nella bellezza del deforme egli vedeva un contrasto dialettico che lasciava emergere la vera bellezza attraverso l’antitesi. Alla vista di una simile opera d’arte, l’anima di chi guardava doveva essere purificata dall’orrore del male.

Come ha mostrato Hans Robert Jauss, la rappresentazione del brutto nella letteratura medievale segue un canone rigoroso: il brutto è inteso come la manifestazione del male. La sua origine è l’antidivino, il diabolico (67). Il presupposto di tale atteggiamento è la concezione agostiniana delle due rispettive cittadinanze Civitas Dei e Civitas Diaboli. Così, come Dio, anche il suo avversario ha un popolo che gli appartiene.

Secondo la concezione cristiana, la distinzione tra i due regni doveva essere incessantemente predicata (68). Così nel Medioevo si sviluppò una tensione straordinaria. Il forte dualismo di una concezione che contrapponeva il regno di Dio al mondo peccaminoso permetteva di assorbire i sentimenti più elevati e puri nella religione, mentre gli istinti naturali, consapevolmente rifiutati, sprofondavano al livello di una mondanità disprezzata come peccaminosa (69).

Il mondo era visto come un grande contesto simbolico. Questo fatto creava la possibilità di apprezzare e godere comunque del mondo, che era di per sé riprovevole, e anche di valorizzare l’attività terrena (70).

Il Medioevo era un periodo di tensione, disintegrazione e riorientamento. Di conseguenza, quelle forze demoniache (che, fino a quel momento, erano state bandite nel sistema di credenze) acquisirono un nuovo potere. Fantastiche forme intermedie tra Dio e l’uomo apparivano dappertutto e l’idea della mescolanza satanica dei due regni sembrava diventare una realtà. La credenza nei demoni e la convinzione del potere onnipresente del male hanno cosí trionfato (71). Inoltre, ogni evento nella vita dell’uomo medievale era in sintonia con uno stile di vita plasmato dal mistero divino. La Chiesa era scossa, il clero corrotto, il diavolo regnava e lo stesso diavolo era temuto come Anticristo.

Tuttavia, Tommaso d’Aquino aveva già separato il contenuto morale religioso dallo sforzo artistico, sebbene equiparasse anche il bello al bene. Ma per lui questi due concetti erano diversi nel loro scopo: egli vedeva il bene nella vita virtuosa dell’uomo, mentre considerava il bello solo come un momento formale all’interno di una legge creatrice (72). Questa distinzione conteneva un programma che, nel corso del tempo, portò alla separazione della visione religiosa da quella artistica del mondo, nella misura in cui l’armonia artificiale non era più il riflesso di presupposti trascendenti, ma aveva la sua fonte nell’esperienza dei sensi (73).

Così, Leon Battista Alberti oppone un’interpretazione puramente fenomenica alla concezione metafisica della bellezza sostenuta da Marsilio Ficino.

Ficino definiva la bellezza come la chiara somiglianza dei corpi alle idee – «Pulchritudo in corporibus est expressior ideae similitudo» (74) – ovvero come la vittoria della ragione divina sulla materia. Al contrario, Alberti vedeva la bellezza come una concordanza di proporzioni e ordine, razionalmente determinabile, richiesta dalla legge assoluta della natura: «…statuisse sic possumus pulchritudinem esse quendam consensum et conspirationem partium in eo, cuius sunt, ad certum numerum, finitionem collocationemque habitam, ita uti concinnitas, hoc est absoluta primariaque ratio naturae postlarit» (75).

Alberti coglieva così la bellezza solo sulla base del suo aspetto esteriore e non riconosceva in essa alcun significato interiore. Tuttavia, egli non rinunció esplicitamente a una spiegazione metafisica della bellezza ma la soppresse solo tacitamente. Allo stesso tempo, egli considerava la pittura come un utile servitore della religione, poiché poneva le immagini degli dei davanti all’occhio mortale, e quindi stabiliva più fermamente la connessione tra il celeste e il terreno: «Et che la pictura tenga expressi li iddij quali siano adorati dalle genti, quaesto certo fu sempre grandissimo dono ai mortali, pero chi la pictura molto cosí giova ad quelle pietra per quäle siamo congiunti alli idij insieme et a tenere li animi nostri pieni di religione» (76).

Alberti ha così allentato il legame tra il bello e il buono, ma non l’ha spezzato.

Anche se i suoi contemporanei seguirono la definizione di Alberti, che determinò la teoria [ufficiale] dell’arte per più di un secolo, la giustificazione della realizzazione della bellezza rimase comunque un problema. Per risolvere la questione di come la rappresentazione della bellezza fosse possibile, non bastava aver trovato la caratteristica esterna del bello: il valore della bellezza doveva essere legittimato metafisicamente.

Nella ricerca del principio di cui l’armonia o la concordanza richiesta delle parti era solo un’espressione sensuale, si ricorreva a ogni tipo di speculazione metafisica, sia al sistema della scolastica medievale che al neoplatonismo rinato dal XV secolo. Così, seguendo la metafisica della luce, il bello fu nuovamente definito come il riflesso della bellezza divina. Inoltre, secondo Borghini, la bellezza fisica di una persona significava contemporaneamente la sua purezza spirituale (77). Così, il valore del bello stava nell’espressione visibile del bene. In accordo con questa visione, il fenomeno della bruttezza trovava anche una spiegazione metafisica nella “resistenza della materia”, che appariva come il principio della bruttura e del male (78).

L’ideale dell’umanesimo risiedeva nell’idealistica perfettibilità corporea-spirituale di tutti gli esseri umani. Così la bellezza era intrinsecamente legata alla perfezione e quindi consisteva in una manifestazione del bene. La contro-immagine della bellezza, la bruttura, era di conseguenza la manifestazione del male.

L’idea che l’anima e lo spirito modellassero l’aspetto fisico e l’espressione [della persona] ha portato a rigorose equazioni di fisiognomica. Classificazioni semplicistiche si manifestarono presto nelle vedute fisiognomiche popolari (79): così si era convinti che qualcuno fosse brutto perché cattivo.

Una volta stabilite le coordinate del bello e del perfetto, gli artisti del XVI secolo furono in grado di inventare un contro-mondo soggettivamente impostato sotto forma di un “tipo ideale” di deformità, la sproporzione delle misure, la somiglianza con gli animali e la deformità caratterizzata di ogni tipo.

2.4.2.

Il brutto come espressione del male.

Nella misura in cui il brutto deve entrare nell’ambito dell’estetica come forma indipendente, il male deve anche diventare direttamente efficace sotto il profilo estetico, cioè senza maschera (80). Lo smascheramento toglie infatti la possibilità, data fondamentalmente dalla discrepanza tra la perfezione interiore e quella esteriore, di nascondere l’apparenza dietro una maschera. Attraverso lo smascheramento, si elimina la possibilità di inganno e si scopre il brutto.

Allo stesso tempo, smascherare significa registrare una perdita di potere. Il potere è quella forza che impone agli altri la legge della sua volontà; per essere riconosciuto, richiede sempre una giustificazione. Nel Rinascimento, tuttavia, tale legittimazione fu rifiutata e il potere fu apertamente ricercato come tale; esso si fondava sulla mera efficienza dei potenti (81). In questo tipo di auto-deificazione, però, l’essere umano perdeva il suo scopo ed entrava in opposizione a ciò che avrebbe dovuto  essere, cioè al bene.

Inoltre, nell’arte cristiana il diavolo corrisponde all’immagine del male. Finché non appare come un tentatore in una bella forma, è rappresentato in modo repulsivo ed esorcizzante per mezzo del grottesco, in quanto malizioso e pericoloso. In tal senso, l’assenza del bene causa la deformazione.

Una doppia testa composta da un papa e da un diavolo che rappresenta il potere malvagio personificato smaschera così il falso splendore del papa stesso e smaschera la sua posizione esteriormente dignitosa. Il suo potere è rappresentato dalla connessione con il diavolo come potenza satanica, che è nulla rispetto al potere di Dio, perché quest’ultimo è il più forte in quanto principio del bene.

Tuttavia, vedere il papa come rappresentante o campione del male e spingerlo nel ruolo di perturbatore dell’ordine divino, l’avversario, era un grande passo. Per esempio, nessun sovrano laico nel X secolo avrebbe osato condannare il papa come rappresentante del male (82), sebbene a quel tempo sul trono papale ci fossero figure indegne. Dopo tutto, colui che rappresentava il potere dell’Altissimo si distingueva dalla folla per una certa altezza.

2.5.

La “Devotio moderna”.

Una visione più irriverente del Papa fu probabilmente resa possibile solo dalla “Devotio moderna”, un movimento ecclesiastico che iniziò nei Paesi Bassi alla fine del XIV secolo e si diffuse nel resto d’Europa e specialmente in Germania nel corso del XV secolo. Con esso, la frattura tra la chiesa come istituzione e la pietà si aprì completamente, poiché richiedeva una rinuncia alla teologia in favore delle virtù generalmente provate nella vita quotidiana. Per la “Devotio moderna”, non era tanto Dio ad essere la base, quanto la sensibilità e le esperienze umane. L’importanza della “Devotio moderna” risiede soprattutto nella pratica della vita spirituale (83) e nella pietà centrata su Cristo.

Tra le opere più influenti della letteratura spirituale di questo tempo c’è l’“Imitatio Christi”. Questo libro non è solo l’opera più diffusa all’interno della “Devotio moderna”, ma – dopo la Bibbia – il libro della letteratura mondiale più letto in assoluto (84).

Esso propaga l’umiltà e la pace interiore, che deve essere raggiunta attraverso il disprezzo del mondo e la conquista di sé. Afferma inoltre che il regno di Dio è dentro l’uomo stesso. Perciò, tutto ciò che è esterno dovrebbe essere disdegnato; esso si esigeva una devozione all’interno.

Il contrasto tra lo spirituale e il materiale, l’interno e l’esterno, è stato il tema dominante, con il quale è stata fatta una critica acuta all’esternalizzazione della pietà tardo medievale. Già qui iniziò la lotta contro l’acquisizione di beni spirituali per denaro o per il valore del denaro e contro l’inosservanza del voto di povertà da parte dei religiosi.

2.5.1.

I papi del Rinascimento.

L’età del Rinascimento e i papi rinascimentali hanno poi intensificato i sintomi della crisi [religiosa]. Senza prendere in considerazione la situazione data, lo Stato della Chiesa si è sviluppato sempre più come rappresentazione della Chiesa. I compiti effettivi del papato passavano cosí in secondo piano rispetto alla politica e, quindi, alla rivendicazione del potere mondiale.

Durante diversi pontificati italiani il compito più urgente fu quello di tenere a distanza la Francia e la Spagna. L’espansione dei territori di queste due potenze doveva essere impedita. L’aiuto più importante per tale obiettivo furono le “censure ecclesiastiche”; a tale scopo, l’imposizione dell’“interdetto” poteva infatti interrompere gravemente il commercio o addirittura permettere il sequestro di beni stranieri.

Inoltre, i papi del Rinascimento mostrarono di solito una propensione molto costosa alla rappresentazione esagerata [del loro potere], il che rese inevitabile lo sviluppo del sistema di tassazione. L’avidità del clero, la falsità e la depravazione dei monaci, ogni accumulo di benefici che ostacolava il servizio divino in quanto tale, le frodi dei mercanti di indulgenze e in breve, la corruzione del clero sono probabilmente meglio descritti dal termine “decadenza del cristianesimo” (85).

Sarebbe comunque troppo unilaterale giudicare la gran parte dei papi rinascimentali esclusivamente in modo negativo. Anche se l’immoralità era uno stigma legato a quel tempo, l’importanza dei papi come promotori di cultura deve essere sottolineata in senso positivo.

Questa realtá fece sì che i contemporanei giudicassero il comportamento dei papi in modi diversi; le lodi o le colpe dipendevano dai diversi punti di vista dei rispettivi critici. È quindi comprensibile che i papi siano stati giudicati in modo molto diverso dagli artisti piuttosto che dai riformatori.

Le dichiarazioni di Vasari sui singoli papi ne sono la testimonianza.

Nella biografia di Bernardino Pinturicchio, Vasari cita Pio II: il problema principale del suo regno fu il tentativo fallito di coalizzare l’Europa contro i turchi, che avevano conquistato Costantinopoli nel 1453. Inoltre, l’influenza di questo umanista come scrittore, pubblicista e poeta fu significativa. Vasari tesse grandi lodi di questo papa; infatti, nella descrizione della decorazione della biblioteca della cattedrale di Siena (che, come egli ricorda, fu fondato dal papa) (86), sottolinea in particolare il decimo quadro: secondo lui, quella rappresentazione mostra Pio II che muore ad Ancona mentre equipaggia una formidabile armata contro i Turchi mentre il suo corpo viene portato da Ancona a Roma con l’onorevole scorta di innumerevoli signori e prelati che piangono la morte di un tale uomo, un Papa così raro e santo: «Nella decima ed ultima, preparando papa Pio un’armata grossissima con l’aiuto e favore di tutti i principi cristiani contra i Turchi, si muore in Ancona, ed un romito dell’eremo di Camaldoli, Santo uomo, vede l’anima d’esso Pontefice in quel punto stesso che muore, come anche si legge, essere da angeli portato in cielo. Dopo si vede, nella medesima storia, il corpo del medesimo essere da Ancona por-tato a Roma con orrevole compagnia d’infiniti signori e prelati, che piangono la morte di tanto uomo e di si raro e Santo Pontefice» (87).

Mentre, nella successione di Pio II, la serie di papi rinascimentali diede ai riformatori motivo di indignazione, Vasari si astenne da qualsiasi critica nei loro confronti.

Nella biografia di Raffaello da Urbino, egli ricorda che un destino invidioso privò della vita Giulio II, lui che era stato promotore di tanto talento e amico di ogni buona causa: «Mentre che la felicitá di questo artefice faceva di se tante gran maraviglie, la invidia della fortuna privó della vita Giulio II, il quale era alimentatore di tal virtú ed amatore d’ogni buona» (88).

La valutazione del Vasari era ovviamente determinata dal fatto che Giulio II era appassionato d’arte; egli aveva chiamato a Roma artisti come Bramante, Raffaello e Michelangelo e aveva iniziato la costruzione della chiesa di San Pietro a Roma nel 1506. Per contro, Giulio II era anche entrato in violento conflitto con Venezia, che fu infine sottomessa dalla “Lega di Cambrai”; inoltre, con Venezia, Spagna e Inghilterra nella “Lega Santa”, egli si rivolse contro i francesi e ottenne la loro espulsione dall’Alta Italia. Nonostante ció, quando Vasari mette sullo stesso piano la grandezza di un Giulio II e la nobiltà di un Leone X, non si sente un atteggiamento critico verso le attività belliche di quel papa: «…la grandezza di Giulio II e la generositä di Leone X…» (89).

Vasari ritenne di mitigare le sue altrimenti abituali espressioni elogiative solo quando fu scelto un papa che, a differenza dei suoi predecessori, non appariva come un patrono delle arti. Così, infatti, egli lamentava che, dopo la morte di Leone X, le belle arti e gli altri talenti non avessero posto a Roma e che, con l’elezione di papa Adriano VI, tutte le opere pubbliche iniziate dal suo predecessore fossero rimaste incompiute: «… e così anco mancato papa Leone, per non avere più luogo in Roma l’arti del disegno ne altra virtu… (90)….perché creato nuovo pontefice Adriano, e tornatosene il cardinale de’Medici a Fiorenza, restarono indietro insieme con questa tutte le opere pubbliche cominciate dal suo antecessore» (91).

Vasari tenta di spiegare la situazione disperata degli artisti sotto Adriano VI (che, nelle sue parole, non era interessato a dipinti, sculture o altro), «… Adriano, come quello che ne di pitture o sculture ne d’altra cosa buona si dilettava…» (92), sostenendo apertamente che durante la sua vita sono quasi morti di fame: «Disperati adunque Giulio e Giovan Francesco, ed insieme con esso loro Perino del Vaga, Giovanni da Udine, Bastiano Viniziano e gli altri artefici eccellenti, furono poco meno (vivente Adriano) che per morirsi di fame» (93).

Vasari non si accontenta di affermare che la corte [papale], abituata alla grandezza di Leone X, era abbastanza “compressa” e i migliori artisti meditavano dove trovare un rifugio perché vedevano che nessun talento era più apprezzato. Al contrario, egli sostiene che fu solo con la morte di Adriano che fu di nuovo assicurata la fioritura delle arti, perché con Clemente VII, le belle arti hanno ripreso vita assieme alle altre virtù: «Ma, come volle Dio, mentre che la corte avvezza nelle grandezze di Leone era tutta sbigottita, e che tutti i migliori artefici andavano pensando dove ricoverarsi, vedendo niuna virtú essere piti in pregio, mori Adriano, e fu creato sommo pontefice Giulio cardinale de’Medici, che fu chiamato Clemente VII, col quäle risuscitarono in un giorno, insieme con l’altra virtú, tutte l’arti del disegno» (94).

Altrove Vasari ribadisce come l’elezione di papa Clemente VII abbia restituito aria fresca all’arte della pittura e della scultura, che erano state trascurate durante la vita di Adriano. questi non solo non la commissionava ma non si interessava affatto ad essa; anzi, la odiava e non consentiva che altri vi si interessassero, spendessero denaro per essa o assumessero un artista: «Fu 1’anno 1523 creato papa Clemente VII, che fu un grandissimo refrigerio all’arte della pittura e della scultura, state da Adriano VI, mentre che ei visse, tenute tanto basse, che non solo non si era lavorato per lui niente, ma non se ne dilettando, anzi piuttosto avendole in odio, era stato cagione che nessun altro se ne dilettasse o spendesse o trattenesse nessun artefice, come si e detto altre volte» (95).

Tuttavia, egli non ricordò che, nonostante le capacità diplomatiche, Clemente VII non sia stato all’altezza dei compiti del suo ufficio al tempo dell’inizio della Riforma: egli infatti si era schierato inizialmente con la Francia e, dopo il “Sacco di Roma” e la Pace di Barcellona, con Carlo V e non fu in grado di impedire lo scisma dell’Inghilterra da parte di Enrico VIII.

Le osservazioni di Vasari su Papa Paolo IV sono simili: egli trova da ridire sul fatto che egli non nutrisse interesse per le arti e, nella biografia di Perino del Vaga, riporta che il poeta Francesco Maria Molza (favorito dal cardinale Alessandro Farnese) e molti altri amici esortavano l’artista ad avere pazienza, dicendogli che non era più la vecchia Roma; soprattutto, i rappresentanti delle belle arti avrebbero dovuto essere stanchi e stanchi di quella città prima di essere di nuovo scelti da essa: «Pure il Molza e molti altri suoi amici lo confortavano ad aver pacienza, con dirgli che Roma non era piü quella, e che ora ella vuole che un sia stracco ed infastidito da lei, innanzi ch’ella l’elegga ed accarezzi per suo, e massimamente chi segue l’orme di qualche bella virtù» (96).

In un altro luogo Vasari riferisce che, non essendo interessato alla pittura, Paolo IV rifiutò la richiesta del cardinale di Carpi di completare la “Sala dei Re”, dicendo che sarebbe stato molto meglio fortificare Roma che spendere soldi in quadri: «Morto papa Giulio III, e creato sommo pontefice Paolo IV, il cardinale di Carpi cercó che fusse da Sua Santitä data a finire a Daniello la detta sala dei Re; ma non si dilettando quel papa di pitture, rispose essere molto meglio fortificare Roma, che spendere in dipingere» (97).

Di nuovo, Vasari si concentra sulla mancanza di apprezzamento dell’arte. Il fatto che Paolo IV fosse l’anima dell’Inquisizione, invece, passa in secondo piano.

La valutazione del Vasari sulla personalità dei papi si basava quindi principalmente sul fatto che… fossero benevoli e favorevoli alle arti, o che non vi attribuissero alcuna importanza.

2.5.2.

Critica degli abusi della chiesa.

Sebbene l’influenza dei papi rinascimentali nell’area della cultura sia da valutare positivamente in accordo con Vasari, le aberrazioni nell’area morale e religioso-politica di questi regnanti non possono rimanere inosservate. La loro presunzione e l’amore per la gloria erano contrari alla dottrina cristiana dell’umiltà; essi si comportavano come i grandi di questo mondo, ai quali la miseria umana era estranea. Non puó sorprendere, quindi, che le critiche alle condizioni ecclesiastiche non tardassero ad arrivare.

In Italia, per esempio, il monaco domenicano Savonarola si rivoltò contro il culto basato solo sulle esteriorizzazioni: in generale, egli considerava il clero [del suo tempo] molto più capace di distruggere che di costruire la vita cristiana.

Ma anche altrove la gente era critica nei confronti dell’autorità del papa e chiedeva la fede “con” la chiesa, non “alla” chiesa. La differenza tra le leggi divine e quelle meramente ecclesiastiche era enfatizzata, il papa era ancora visto come il rappresentante di Cristo ma, allo stesso tempo, era giudicato come un uomo peccatore e mortale (98).

Nonostante tutto questo, i critici rappresentanti di un umanesimo moralizzante erano ancora una espressione abbastanza interna al regno della Chiesa, di cui volevano la riforma sostanzialmente solo sotto l’aspetto della conservazione del vecchio ordine.

2.5.3.

Erasmo da Rotterdam.

Anche se Erasmo da Rotterdam aveva criticato sarcasticamente le condizioni ecclesiastiche, prese comunque le distanze dalla lotta aperta da Lutero contro le istituzioni papali, anche perché lo stesso Erasmo si sforzava di ritornare agli inizi del cristianesimo, soprattutto dal punto di vista etico.

Risalendo alle Sacre Scritture e ai Padri della Chiesa, chiarezza e semplicità erano il suo obiettivo. Egli non vedeva la perfezione cristiana in uno status speciale o in paramenti sacri e quindi criticava le molte cerimonie della chiesa. Anche la teologia in quanto tale e i costumi del clero e dei monaci non furono risparmiati dai suoi attacchi. Nel suo libro più famoso, “Lob der Torheit” (Elogio alla follia), tra le altre cose, attaccò satiricamente l’intolleranza religiosa e la sopravvalutazione dei dogmi ecclesiastici.

Inoltre, egli vedeva nei mezzi di espressione dell’arte e della teologia la possibilità di un doppio significato. Per lui, tutto era ambiguo, l’esterno nascondeva l’interno, in quanto solo gli stupidi portavano le loro opinioni in faccia, mentre i saggi parlavano cautamente con lingue biforcute (99).

L’espressione pittorica adeguata di tutte queste idee è probabilmente costituita dalle medaglie a due teste; le teste degli ecclesiastici non mostrano necessariamente gli aspetti riprovevoli del clero rappresentati ed esemplificati da loro, soprattutto perché i loro tratti neutri raramente esprimono emozioni (100).

Che parlino con la lingua biforcuta è evidenziato dalla doppia testa in quanto tale e, in particolare, dal modo in cui le due teste opposte si uniscono, vistosamente nella zona della bocca, rende possibile l’espressione linguistica. Una sola bocca per due facce costituisce un’indicazione piuttosto chiara della doppia mentalità del personaggio rappresentato.

Erasmo ha aggiunto l’essenza dell’ambiguità concludendo che la bellezza esteriore, proprio come la bruttezza repulsiva, appare solo come un miraggio: in realtà, poiché non esiste un’affermazione oggettivamente univoca, tutto dipende dal contesto. Così, ancora una volta, vedeva la necessità della figura come norma, sulla base della quale solo il deforme poteva essere misurato.

Di conseguenza, l’anticristianità del papa, cioè la sua mancanza di forma, potrebbe essere misurata solo contro la vita esemplare di Cristo, cioè come il buon pastore di cui il papa dovrebbe comunque essere il successore. Misurate da Cristo, però, queste persone non possono più essere chiamate sante, perché lo sarebbero solo per una vita moralmente perfetta che le unisse a Dio.

Ancora, nelle medaglie beffarde l’effetto del cambiamento dalla santità all’ipocrisia è espresso in modo eccellente dalle doppie teste.

Inoltre, esse rappresentano la tesi di Erasmo per cui ognuno vede solo quello che vuole vedere, dato che le doppie teste non sono definite chiaramente: esse ci permettono, infatti, di vedere allo stesso tempo l’altro nell’uno. All’inizio appaiono come teste dal giusto carattere, alle quali non si attribuirebbe necessariamente il diabolico. Le prime apparenze sono peró ingannevoli perché, quando le giri, tutta la finzione dei personaggi viene alla luce: cosí essi possono essere associati senza sforzo alle potenze di cui sono al servizio dimostrandosi sciocchi o addirittura creature del diavolo.

Usate in questo senso dai riformatori come mezzo di propaganda contro la Chiesa cattolica, le medaglie non mancarono di ottenere il loro effetto. Una medaglia di derisione antipapale del 1543, per esempio, provocò l’indignazione del gesuita Gretser. Sul dritto è raffigurata una doppia testa di cardinale con giullare con l’iscrizione «DES BAPST GEBOT IST WIDER GOT» (il potere del vescovo è piú ampio di quello di Dio). Sul rovescio, un vescovo è unito all’indietro con una figura femminile che tiene un candeliere e un libro; l’iscrizione recita «FALSCH LEHR GILT NICHT MEHR» (l’apprendimento falso non si applica più) (101).

Estremamente arrabbiato, Gretser reagì alla vista di questa moneta-medaglia: «Mi scandalizzo quando penso alle immagini che ho visto, e mi vergogno che i nostri tempi siano stati contaminati con invenzioni così oscene. Mentre scrivo questo, ho in mano e contemplo una moneta d’argento che devo supporre sia stata coniata nell’officina di Satana nell’anno 1543».

In realtà, il suo disappunto fu causato dall’iscrizione che si legge sul retro della medaglia, che lo spinse a ribadire quanto la dottrina cattolica fosse apprezzata anche a quel tempo: «Mentre la falsa dottrina non è mai stata più stimata di adesso, dopo che gli apostati hanno inventato una nuova dottrina e nuove monete» (102).

Inoltre, Gretser tentò di confutare l’attacco alla Chiesa cattolica mettendo in relazione la doppia rappresentazione di cardinale e di sciocco con i riformatori. Nella sua descrizione della moneta, afferma: «Rappresenta un cardinale su un lato, e se si gira la testa, diventa un luterano, cioé un pazzo» (103).

Non c’è comunque dubbio, tuttavia, che la medaglia non alludeva ai “luterani” ma al papato. Peraltro, Gretser poteva associare la medaglia a due teste ai riformatori solo perché si trattava di immagini fantasiose e non di effigi, per cui i dignitari ecclesiastici non potevano essere oggettivamente identificati proprio grazie alla loro rappresentazione astratta sulle medaglie a due teste.

Tuttavia, una medaglia satirica dorata (104) potrebbe costituire comunque un’eccezione, poiché essa si riferisce a Lutero con i nomi “Lutero” e “Katharina” incisi sul suo rovescio. Ma l’incisione non è coeva alla rappresentazione (105) e la tipologia artistica sul dritto assomiglia a una medaglia un po’ più piccola che, se non puó essere effettivamente considerata come opera autentica di Peter Flötner, era stata creata “alla sua maniera”, come sottolinea Georg Habich (106). Anche su questa medaglia senza iscrizioni si può vedere l’immagine a doppio petto di due frati di un ordine monastico. Entrambi sono “ingrossati”  in modo che le estremità delle loro guance pendano dalla bocca; il monaco in primo piano nasconde anche una bottiglia nel suo cappuccio. Ovviamente entrambe le medaglie avevano lo scopo di deridere lo stile di vita dei monaci in generale.

Tra le medaglie conosciute oggi non ce n’è nessuna che si riferisca direttamente a Lutero.

Le medaglie a due teste, quindi, mantengono un certo rispetto del clero poiché, a prima vista, i personaggi rappresentati non differiscono da semplici ecclesiastici che si sforzano di praticare modi cristiani; solo lo smascheramento causa il riconoscimento della loro anticristianità e li rende ripugnanti. Solo ora la dignità viene sacrificata allo scetticismo sulla loro personalità. L’immagine esteriore denuncia, attraverso l’imbruttimento, la loro falsità interiore.

Così come per Erasmo non c’era nulla di univoco, anche le medaglie mostrano il tutto nell’ambiguità: nelle doppie teste le due valutazioni così opposte sono paradossalmente unite in una stessa persona. In tal senso, concetti come “bene” e “male”, “santo” e “perfetto” nel regno umano non devono essere considerati valori assoluti dato che, in tutta la varietà delle sue forme, l’essere umano prevede anche la possibilità di essere cattivo.

Non è senza motivo che l’idea della morale che appare fin dall’inizio nella doppia forma di “bene” e “male”, includa, fin dall’inizio, la possibilità dell’ingiustizia e della colpa come insegnamento al bene.

Così la maschera del male si riferisce ai papi come ai cardinali, anche se li rappresenta in forme diverse. L’uomo, impigliato nei lacci del diavolo, non è libero, mentre lo stolto gode della LIBERTA’.

Note.

1.

Vasari, Giorgio: Edizione Milanesi, op. cit., vol. IV, pp. 426 ss.

2.

Vasari, Giorgio: Edizione Milanesi, op. cit. vol. VIII, p. 241.

3.

Lomazzo, Giovanni Paolo, op. cit. i, 2.

4.

cfr. cat. della mostra, Norimberga 1979, op. cit., p. 154.

5.

Fig. 1-21 b.

6.

Gretser, Jacob, op. cit., p. 1976, testo originale: latino; citato da Schnell, Hugo, op. cit., p. 17.

7.

cfr. cat. della mostra, Berlino 1977, op. cit., p. 85.

8.

Figg. 22-26 b.

9.

cfr. Schnell, Hugo, op.cit., p.45.

10.

Fabriczy, Cornelius von, op.cit., p. 9.

11.

s. Ill.

12.

cfr. cat. della mostra, Amburgo 1983, op. cit., p. 164 e Cat. della mostra, Utrecht 1981, op. cit., p. 29.

13.

s. Figg. 27 a – 31 b.

14.

Fig.32 – a proposito, questo non si trova presso la Alte Pinakothek, come affermato da R.W. Scribner, op. cit., p. 166, ma nella Staatliche Graphische Sammlung, Monaco.

15.

Fig. 33.

16.

Fig. 34.

17.

Fig. 7 a/b.

18.

cfr. Habich, Georg, op. cit., vol. II, 1a metà, p. 285.

19.

cfr. fig. 2 a/b.

20.

cfr. fig. 6 b.

21.

cfr. fig. 4 a.

22.

cfr. fig. 35 a/b.

23.

cfr. Curtius, E.R., op. cit. p. 94 – 98.

24.

Scribner, R.W., op. cit. p. 164.

25.

Cfr. Bakhtin, M., op. cit. p. 11 e Mezger, W. e altri: Narren, Schellen und Marotten, op.cit.

26.

Scribner, R.W., op. cit. p. 164.

27.

Joh. 2,18; 4,3; 2.Joh. 7.

28.

Matteo 24, 23 e 24.

29.

Ep. l.Tess. 4; Ep. 2.Tess. 2; Ep. l.Tim. 4.

30.

Koselleck, R., op. cit. p. 362.

31.

Ibidem, p. 2o.

32.

Fig. 36 a/b.

33.

Lascault, G., op. cit. p. 51, 189, 194, 248-25.

34.

Lefebvre, J., op. cit. pp. 88-9o.

35.

Cfr. per esempio Es 4, 24-26; Mal I, 2-5; Os II, 7-9.

36.

Barth, H.M., op. cit. p. 117.

37.

Cfr. Schrade, Hubert, op. cit. p. 72.

38.

cfr. Schrade, Hubert, op. cit. p. 214.

39.

Kettler, Walter, op. cit. p. 47.

40.

Volz, P., op. cit. p. 4.

41.

Obermann, Heiko A., op. cit., p. Io9 s.

42.

Le opere di Martin Lutero, op. cit. vol. 6 n. 6832; 219, 3o-4.

43.

Le opere di Martin Lutero; sezione Opere, op. cit. Vol. 54. 187, 3-5.

44.

Leeuw, G.v.d., op. cit. p. 141.

45.

Semmelroth, Otto, op. cit. p. 35.

46.

Ivi, p. 4.

47.

cfr. Küster, J.: Der Narr als Gottesleugner, in: Mezger, Werner u.a., op.cit., p. 97 ss.

48.

cfr. Könneker, B., op. cit., p. 251.

49.

Schuster, Peter-Klaus, op. cit.

50.

Melot, Michel, op. cit. p. 22.

51.

Cfr. Rosenkranz, Karl, op. cit.

52.

Wiegand, Anke, op. cit. p. 17.

53.

Socrate, Senofonte, III, lo, I, in:. Overbeck, J., op. cit. n. 17ol.

54.

Panofsky, Erwin: Idea, op. cit. p. 5 3.

55.

Cicerone, Orator ad Brutum II, in: Overbeck, J., op. cit., n. 717.

56.

L.A. Seneca, ep. 68 ed ep. 28, citato in: Perpeet, W., op. cit., p. 12 2.

57.

Misch, G., op. cit. p. 438 f.

58.

Perpeet, W., op. cit. p. 14.

59.

Tertulliano, Apologeticum, 48, 9; citato da: Perpeet, W., op. cit. p. 19.

60.

Agostino, Confessiones X, 34 (ed. Knöll), citato dopo: Panofsky, Erwin: Idea, op.cit., p. 81, nota 67.

60.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 18.

61.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 43 f.

62.

Scoto, Giovanni: Super ierarchiam celeste Sancti Dionysii I, I; cit. dopo: Assunto, R.,

op. cit., p. 189.

63.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 84.

64.

Assunto, Rosario, op. cit. p. 91.

65.

Ulrich di Strasburgo: Summa de bono II 3 IV, De pulchro, in: Assunto, Rosario, op.cit.

66.

Jauss, H.R., op. cit. p- 154 2.

67.

Best, O.F., op. cit. p. 2.

68.

Huizinga, J.: Autunno del Medioevo, op. cit. p. 251 s.

69.

Ibidem, p. 292.

70.

Best, O.F., op. cit.”, p. 5.

71.

cfr. su questo: Wulf, M. de, op. cit.

72.

Dvoräk, Max, op.cit., p. 127.

73.

Ficino, Opera II, p. 1576, citato da: Panofsky, Erwin: Idea, op. cit.

74.

Alberti, Leone Battista: De re aedificatoria, IX, 5.

75.

Alberti, Leone Battista, op. cit. p. 89.

76.

Borghini, Raffaello, op. cit. p. 122.

77.

Panofsky, Erwin: Idea, op. cit. p. 53.

78.

Schmolke-Hasselmann, Beate, op. cit.

79.

Wiegand, Anke, op. cit., p. 87.

80.

ibid., p. 55.

81.

Wolf, Gunther, op. cit., p. 413.

82.

Jedin, Hubert, vol. III/2, op. cit.

83.

Ijedin, Hubert, vol. III/2, op. cit. p. 535.

84.

Nigg, Walter: Painter of the Eternal, op. cit.

85.

Vasari, Giorgio, vol. I, op. cit.

86.

ibidem, p. 915.

87.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Raffaello da Urbino, op. cit. p. 145.

88.

Ibidem, p. 168.

89.

Vasari, Giorgio, vol. III, Vita di Giovanni da Udine, op. cit. p. 222.

90.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Giulio Romano, op. cit. p. 575.

91.

Ibidem, p. 576.

92.

Ibidem.

93.

Ibidem.

94.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Perino del Vaga, 3 – 3 – 0 – ? S• 636.

95.

Vasari, Giorgio, vol. II, Vita di Perino del Vaga, op. cit.”, p- 646.

96.

Vasari, Giorgio, vol. III, Vita di Daniello Ricciarelli da Volterra, op. cit.”, p. 342.

97.

Jedin, Hubert, vol. III/2, op. cit. p. 7o6.

98.

Cat. della mostra Köpfe der Lutherzeit, op. cit., p. 14.

99.

cfr. per esempio le figg. 1 e 2.

100.

Fig. 35 a/b.

101.

Gretser, Jacob, op. cit., p. 1796, testo originale: latino; citato da Schnell, Hugo, op. cit., p. 44.

102.

Gretser, Jacob, op. cit. p. 1796, testo originale: latino; citato dopo Schnell, Hugo, op. cit. p.44.

103.

Fig. 37 a/b.

104.

cfr. Schnell, Hugo, op. cit., p. 48.

105.

Fig. 38

106.

Habich, Georg, op. cit., 1° vol., 2° metà, p. 26o.

Fin dal Medioevo, l’arte cristiana ha conosciuto la realizzazione di maschere grottesche, principalmente per scongiurare ed esorcizzare le forze del male. A partire dal XV secolo circa, invece, la grottesca distorsione del volto umano è stata usata per dileggiare i dignitari della chiesa e dello stato nelle controversie politiche, sociali e teologiche dell’epoca. In questo contesto, la maschera non serviva a nascondere, ma a rivelare il presunto male sotto forma di nemico.

Il soggetto principale di quest’opera sono le medaglie a doppia testa, in cui papi e cardinali si trasformano in diavoli e buffoni stolti ribaltandoli. Il fulcro dell’indagine sono i motivi del “brutto” e le loro contro immagini del sacro e del perfetto. Nel contesto delle questioni iconografiche, storico-religiose ed estetiche, le opere vengono messe in relazione con gli scritti originali del XV e XVI secolo al fine di elaborare la differenza tra gli aspetti teologici e la concezione umanistica dell’arte. Opere di Leonardo da Vinci, Dürer, Grünewald e soprattutto il mondo delle immagini di Bosch sono indagate come rappresentative del lavoro artistico in Italia, Germania e Paesi Bassi. Nella concezione della manieristica arte, il piacere del deforme e l’aspetto fantastico del brutto giocano sempre più il ruolo della curiosità priva di valore, così che le medaglie a doppia testa non devono essere viste solo secondo l’aspetto morale della raffigurazione del male ma anche da un punto di vista giocoso.

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